domenica 29 aprile 2018

La vita è un crescendo, anche sotto la croce

Il concerto è il tributo di Santa Celicialia per il centocinquntenario della morte di Rossini - non molto, ma altrove non c’è niente, all’Opera, alla Scala. Con la sua composizione più discussa, che però, a ripensarci, ne sancisce la grandezza. Per essere l’unico lavoro d’impegno del suo ultimo quarto di secolo di vita, per grandi organici, orchestra, coro, solisti. E per gli stessi motive per cui fu contestato, da subito alla prima parigina nel .
Un’opera discussa perché tarda: da tredici anni Rossini si era “ritirato” e non produceva più nulla, nulla da eseguire in pubblico. Lo stesso “Stabat” era stato concepito ne 1831 come dono a un prelato spagnolo, Manuel Fernandez Varela, musicista e maestro di cappella, in occasione di un viaggio nella penisola che Rossini fece al seguito del banchiere Aguedo, suo amico e agente di Borsa.  Con l’esplicita condizione che l’opera non venisse mai eseguita in pubblico, come forma di spettacolo. Dieci anni dopo l’editore parigino Aulagnier pretese di averne i diritti e allora ne nacque una controversia giudiziaria. Rossini, sollecitato  dal suo editore, Troupenas, riprese la breve composizione del 1831, la rimpolpò e il 7 gennaio 1842 fu in grado di presentarla al pubblico di Parigi, al Théätre Italien – poi a Bologna, il 18 marzo, e a Roma il 24 agosto.
Parigi non l’accolse bene. Per essere un’opera profana, e comunque fuori dai canoni della musica sacra. Mentre la critica romantica, ormai monopolista, rimproverò a Rossini il ritorno a formule “classiche”, nelle arie, nei cori, nella strumentazione..
Un’opera in effetti su generis nel genere sacro. Ma per quattro motivi su cui Rossini poteva avere ragione e torto insieme. Uno è il concetto di sacro, oggi molto ampio, allargato a ogni manifestazione umana, anche distruttiva, ma allora ristretto alla sacrestia.
Analogamente per il concetto di musica sacra. Questa obiezione oggi non avrebbe senso, avendo la chiesa abbandonato, con il latino, ogni forma musicale, anche degli inni liturgici e dei canti di accompagnamento. Mentre allora non si concepiva che come un severo polifonismo. Oppure come canto “vestito”, modesto, qual è dell’innario luterano. Questa fu la critica maggiore, che infatti venne dalla Germania. Mentre invece Rossini lavorò sulla traccia dello “stile misto” in vigore da un secolo e oltre, con Alessandro Scarlatti, che al contrappuntismo del canone palestriniano affiancava arie libere e altre pagine profane. Nel sottinteso che la melodia era comunque sacra.
Su questo punto si concentrò la difesa di Heine, nella nota “Rossini e Mendeslssohn” che fu di recensione alla serata del 7 gennaio 1842: “Sono precisamente gli attacchi che vengono dal cuore della Germania contro il gran Maestro che mettono in evidenza l’originale profondità del suo genio”. La sua fede non è acquisita o studiata, come quella di Mendelssohn, che l’ha ricalcata, ma vissuta: solo gli è bastato “richiamare al sentiment i suoni della prima fanciullezza”. Una recensione che apre uno squarcio su cosa va inteso per fede, anche religiosa.
Il quarto punto è la morte: un’opera a celebrazione della morte? Anche perché aperta dai tremendi versetti di Jacolpone, “Stabat mater dolorosa, \ juxta crucem lacrymosa, \dum pendebar Filius”. La funzione religiosa della morte in realtà celebra la vita: il nome, le opere, la memoria. Un susseguirsi di gioie e di dolori.  
Rssini avrà avuto i suoi motivi, è probabile. Stanco o non voglioso, di inzeppare i movimenti gravi, di apertura e conclusivo, dello “Stabat Mater” regalato a Varela con qualche aria che non aveva utilizzato in precedenza, nella sua vita attiva: il numero 4, “Quis est homo?”, o il 6, un Quartetto, e il 7. Ma la musica è canto, come la chiesa sa – sapeva. E la morte è una celebrazione, di vita vissuta, di meriti e di resurrezione. Anche sotto la croce.
Gioacchino Rossini,  Stabat Mater, Ivor Bolton, Orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia, Parco della musica, Roma

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