Un rapporto di cui bisogna sapere per
apprezzare nel giusto senso le focose quartine. Valduga stessa ne dà conto nella
nota editoriale al successivo “Libro delle laudi”: “Lei aveva 28 anni, lui ne aveva
appena compiuti 49. Lei era una giovane studentessa di lettere (a Venezia,
sotto la guida di Francesco Orlando), con una raccolta di versi ancora inedita
e una buona dose di sfacciataggine, lui – già allora – era uno dei più
grandi poeti italiani: Giovanni Raboni. Al telefono lei gli disse che i suoi
testi preferiva consegnarli di persona, che delle poste non si fidava: oggi,
quando ricorda quei momenti ammette: «ovviamente volevo sedurlo». Sembrerebbe
un cliché, invece è l’inizio di un grande amore durato ventiquattro anni. Per
lei, che quel giorno si presentò a casa di Raboni «ubriaca e vestita da pazza»,
lui lasciò la seconda moglie e giurò, sapendo di non mentire, che l’avrebbe
amata «per tutta la vita e anche dopo». I versi che quel giorno Patrizia
Valduga portò al suo futuro compagno dovettero attendere a lungo prima di
essere letti: «Gli piacevo ed era terrorizzato che le cose che avevo scritto
gli facessero schifo». Invece gli piacquero”.
Francesco
Orlando è “l’allievo” di Tomasi di Lampedusa, francesista e anglista,
docente privato a Palermo – di lui Valduga ha detto in altra occasione:
l’“incontro fondamentale nella mia vita”.
Il finale della
nota al “Libro delle laudi” è all’oraziana coda di pesce: “«Ho avuto un gran
culo», commenta la Valduga, e allude alla carriera ma soprattutto alla vita:
«Ho vissuto ventiquattro anni accanto a un genio»”. Ma la relazione è stata
forte.
Le quartine sono la celebrazione degli amori
spensierati. Melodie semplici, da canzonetta. Per dire la scoperta della vita,
dell’intimità più indiscreta, del gioco interminato. Emozionate e ilari, al
modo di Catullo, di Saffo, di Omar Khayaam. Ma ora si direbbe al modo di Patrizia
Valduga, senza bisogno di vino o eccitanti, la felicità e la confidenza col
grande amore bastando all’ebbrezza. Sono seguite da un poema, “Tentazione”, che
le precede: l’inizio della relazione, la scoperta dei sensi, della voglia
carnale, in un corpo e un’educazione malgrado i tanti amori ancora virginale –
“O Padre Nostro, scenda il tuo perdono”, invoca mentre si abbandona. Un lamento
in terzine, già edito con Crocetti, agli esordi letterari, 1982-1985, dalla
folgorante partenza dantesca: “In questa maledetta notte oscura\, con una tentazione
fui assalita\ che ancora in cuore la vergogna dura…”. E una scena forte
sacrificale a seguire. Che poi si disperde, in stiracchiato vagheggiamento di
scuola classica - la rima incatenata è brutta bestia.
Il poema è preceduto da due composizioni non
datate. Un’“Erodiade”, “monologo da Mallarmé”, o la condanna-colpa della
frigidità (Valduga la chiarirà dopo la morte di Raboni, nel “Libro delle
laudi”: “Amare e non potermi
abbandonare\ fare l’amore e non poter godere…”): il godimento è allora altruista, nel piacere dell’innamorato. E una “Fedra”,
“monologo da Racine”, altra innamorata insaziata, dedicata a Franca Nuti, o l’amore
che danna. Due temi che si ritroveranno nella poesia dell’allieva di Orlando,
l’allievo di Lampedusa. Di facilità-felicità di versificazione ineguagliata, di
formazione cosmopolita – ha tradotto tanti francesi, John Donne e Kantor. L’endecasillabo
presto le diventa cantabile, sarà la sua cifra. E anche il tema dei sensi, sull’asse
uomo-donna. Una poesia femminile-maschile, rinfrescante, soprattutto oggi. Non
piatta, non grigia, non algida, non gridata, come sarebbe d’uopo (d’uopo?).
Patrizia Valduga, Cento quartine e altre storie d’amore, Einaudi, pp. 171 € 14
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