venerdì 11 maggio 2018

Egemonia da suicidio

Anderson ci capisce poco della politica, anche perché in Italia fa capo al “Manifesto”, a ciò che ne resta. Nella compilazione “L’Italia dopo l’Italia. Verso la terza Repubblica” di due anni fa, a cura di Arturo Varvelli e Nicola Zippel arriva a dire: “Quando la Seconda Repubblica muoveva i suoi primi passi, l’Italia godeva ancora del secondo più alto Pil pro capite a parità di potere d’acquisto  tra i maggiori paesi Ue, dietro solo alla Germania: una qualità della vita in termini reali superiore a quella di Francia o Regno Unito”. Ma non dice perché. Dopo avere liquidato Craxi in sei righe su trecento, e giusto per farlo un ladro e un corrotto. Ma di Gramsci se ne intende.
Il saggio di ripubblica ormai classico del 1976, sul numero 100 della “New Left Review”. Che celebrava Gramsci come “il marxista, dopo l’epoca classica, oggi più universalmente rispettato”. Per i “Quaderni del carcere” più che per l’attività politica, e in essi del concetto di “egemonia”. Politica, culturale, intellettuale.
Anderson già all’epoca, e lo ridice tal quale, l’egemonia di Gramsci leggeva in chiave di potere. Politico, certo ma nel senso della forza – del numero, della mobilitazione. Non è mai stato ipocrita, non essendo uomo di sacrestia: l’egemonia serve a verniciare il potere, a mantenerlo con argomenti, o a prenderlo. Quest oil fulcro della sua analisi. Adattando se necessario la propria fede e gli argomenti. Una strategia e un mezzo.
Anderson è un marxista alla Marx, uno che non si adagia sulle chiacchiere. L’egemonia di Gramsci collega perciò alla lettura marxista di Lenin e del sovietismo. Da cui Gramsci ha preso il concetto di egemonia e al quale è rimasto fedele - piaccia o no, aggiunge. Una leadership egemonica è una leadership per consenso, spiega, e questo è tutto – è molto, la convinzione conta, ma è sempre ancillare alla conquista-mantenimento del potere. Gramsci non ha mai abbandonato, insiste Anderson, la nozione leninista centrale di “dittatura del proletariato”. Si può aggiungere che era anche per la dittatura di uno solo: nel necrologio in morte di Lenin, che initolò “Capo”, è del parere che “qualunque sia la classe dominante c’è bisogno di capi”.
Nella prefazione a questa riedizione può peraltro rilevare che il “compromesso” che il Pci pensava di dominare è stato suicida. I comunisti di Berlinguer hanno fatto terra bruciata attorno a loro, di ogni forza e opinione politica, per ritrovarsi essi stessi bruciati nel dilagante populismo, dei propri vecchi e dei propri figli. Una deriva che Anderson è poi venuto negli anni scrutando, come si vede nel volume di saggi di tre anni fa, “L’Italia dopo l’Italia”, ed è l’analisi più originale, e forse più vera, del populismo nel quale l’Italia è precipitata: un derivato di una falsa “egemonia”. Della squalifica intellettuale della politica sotto i colpi della “questione morale” e della “casta” – ma intellettuale è dire troppo, la funzione è stata essa stessa dissolta: mediatica è più giusto, di blogger e newscaster, del Rodotà finito pontefice e santo di Grillo. L’egemonia come suicidio, succede nelle sette.
Perry Anderson,  The antinomies of Antonio Gramsci, pp. 192, ril. € 17.


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