Arabia Saudita – È - e resta malgrado le riforme - al centro dell’irredentismo o nazionalismo islamico. Non solo perché lo ha finanziato e finanzia. Ma per la sua stessa conformazione tribale, che ne configura l’isolamento e l’ostilità. L’islam in Arabia Saudita, che ne è il Luogo Santo per eccellenza, dà forte il senso di essere imploso, chiuso, irrancidito. Altrove è garbato, talvolta lezioso, sempre modesto. In Arabia Saudita, dove è stata fino a recente l’unica ragione di vita, prima del boom petrolifero, sembra acuirsi una sua intima schizofrenia. Che viene detta complesso d’inferiorità, con tutta l’acredine che questo comporta, nei confronti dell’Occidente dominatore, ritenuto solo più fortunato, ma la cui natura sembra diversa: è il rifiuto del mondo e insieme il desiderio di cavalcarlo, più accentuati entrambi che nel cristianesimo - l’Occidente, da cui gli arabi hanno ripreso tutto quello che non avevano o avevano perduto, la poesia e una qualche gioia di vivere, il sogno, la magia, il delirio, la filosofia, è semmai loro parte integrante.
Succede
alle società tribali all’ora delle nazioni. Tanto
più quando si erigono a difesa della tradizione, mentre solo coltivano
l’esclusione, dell’infedele come di ogni altra tribù. Con cattiveria, con
ferocia anche, il confine ravvicinato rende l’insicurezza permanente.
Bermuda, conferenza delle –
Poco nota conferenza anglo-americana del 1943, che sancì una sorta di non
intervento nelle politiche tedesche di sterminio. Fu ufficialmente una Conferenza
sui Rifugiati. Organizzata dal Foreign Office britannico, sulla base di una
proposta avanzata il 20 gennaio, a partire dal 19 aprile, con l’intento di
coinvolgere gli Stati Uniti sul problema dei profughi dalla Germania e dai
paesi occupati. I lavori si prolungarono fino al 30 aprile, chiudendosi con un
nulla di fatto. Fu una conferenza governativa bilaterale, cui gli Usa
parteciparono con una delegazione capeggiata dal presidente di Princeton, Harold
Doss, e la Gran Bretagna con un sottosegretario agli Esteri, Richard Law. Le
organizzazioni sioniste presentarono documenti e richieste. Ma furono ignorate.
In realtà Stati Uniti e Gran Bretagna alla conferenza solo si occuparono di
collaudare gli scambi di informazioni sulle proprie politiche e sui rispettivi
rifugiati politici.
Lev Gumilëv –
Figlio di Anna Achmatova, finì presto in Siberia, nel 1946. Vittima della
relazione che la madre poco meno che sessantenne aveva allacciato a Mosca con
Isaiah Berlin, tornato nella Mosca che aveva lasciato da ragazzo come giovane
(trentacinquenne) diplomatico inglese, in realtà come spia - le frequentazioni di Berlin inguaiarono anche
Pasternak e Sacharov (ai vent’anni Achmatova, a Parigi in viaggio di nozze con
Nikolaj Gumilëv, poeta, gli aveva preferito per più di una notte Modigliani,
pittore fantasioso e latino). In realtà Gumilëv era già stato confinato, per
via del padre e della madre – in totale si fece quattordici anni di Siberia. Ma
ritornato a Mosca da quest’ultimo confino sarebbe diventato un teorico del
nazionalismo russo, oggi caro a Putin. Nei suoi due aspetti, dell’Eurasia, e
della Russia come polo d’attrazione etno-geografico.
Sui due temi Gumilëv aveva vedute storico-culturali più che politiche.
Specie sull’Eurasia, che configurava come una funzione attiva, per dare senso
storico a latitudini semidesertiche, ritenute senza storia. Sull’etnicità, di
cui è il teorico, finiva invece per confluire nel nazionalismo panrusso.
L’etnogenesi distingueva in ethnoi
bene individuati, gruppi etnici distinti, e in suerethnoi, formazioni che superano le differenze etniche per
comunanza di linguaggi, passionalità, e carisma. Del carisma elaborò una delle
prime definizioni, come identificazione in un capo. Come moto dal basso verso l’alto,
più che imposto dall’alto. Il carisma legandosi alla passionalità, la forma
attiva di esercizio del carisma stesso, la costituzione di un superethnos si fa attorno a un capo.
Olocausto – A lungo non fu
parte della guerra – e dopo la guerra della storia. L’obbrobrio del nemico è
parte della guerra, e a un certo punto la resa incondizionata e la colpa
collettiva emersero. Non lo sterminio, che pure si sapeva, non c’era bisogno
d’inventarlo o simularlo. Jan Karski lo
denunciò subito: il
10-12 agosto del ’42. Witold Pilecki, un ufficiale polacco della Resistenza, ne
diede testimonianza scritta, e Karski fuoriuscito
diligente ne fece parte ai capi religiosi e politici in Occidente. Il governo
polacco in esilio già ne aveva dato prove. La resistenza polacca lo documentò nuovamente
a ottobre del ’42. Le
Nazioni Unite lo dettagliarono a dicembre. Il “New York Times” ne aveva
riferito il 30 giugno e il 2 luglio. Nell’autunno
del ‘42 c’erano state le prime condanne dei persecutori. L’eccidio degli ebrei fu insomma un segreto alla Poe, bene in
vista.
Nelly Sachs sapeva nell’esilio a Stoccolma, nel
‘43, quando scrisse “il tuo corpo è fumo nell’aria”, l’epicedio per il
“fidanzato morto”, il giovane che mai la amò. Malaparte, ospite gradito a
Varsavia del “Re tedesco di Polonia” Hans Frank, lo diceva e lo scrisse nel
‘43, degli ebrei morti in massa, nel ghetto e fuori, per fame, impiccagione,
mitra, dei vagoni piombati, delle ragazze ristrette nei postriboli. A fine ‘43
circolava in Svizzera un “Manuale del maggiore polacco”: uno studente di
medicina, Jerzy Tabeau, evaso da Auschwitz, che vi stimava in mezzo milione gli
ebrei già eliminati nei lager. Ma la consegna era del silenzio: i russi, che
liberano Auschwitz a gennaio del ’45, ne parlano a maggio, senza menzionare gli
ebrei.
Il
disprezzo dell’ebreo era in Germania un fatto, prima di Hitler. Le bor-ghesie
degli affari e dell’intelligenza erano in Germania antisemite. Non neutre,
erano ostili: gli ebrei avevano il torto d’imitarle, invece di starse-ne tra
gli stracci nel ghetto. E le masse: “Sì, parla bene, l’ebreo!”, dicevano gli
operai nel ‘19 e gli altri compagni proletari di Werner Scholem, che era il
loro candidato al Bundestag. Lo stesso Heidegger, i critici gli fanno torto:
non è un democratico, ma pochi tedeschi lo sono – si pensi al socialismo
tedesco. È colpevole nella misura in cui tutti i tedeschi sape-vano e dicono di
non aver saputo. Il “Deutschland erwache!”, “Germania sveglia!”
di Dietrich Eckhart, l’“amico paterno” del Mein
Kampf, appuntato sui labari nazisti,
era seguito da “Jude verrecke!”, crepi l’ebreo.
Wewelsburg – Fra le tante
ricostruzioni più o meno veritiere degli influssi misterici sul nazismo, il
castello di Wewelsburg rappresenta un dato sicuro, avendone dato conto in più
punti Himmler nei cosiddetti “Diari” - specie alle pp. 188-89 dell’edizione
italiana. Così come sonoc erte le propensioni misterico-mitiche dello stesso
Himmler, uno dei maggiori collaboratori di Hitler, e a un certo punto quello
con più poteri, di maggiore fiducia.
A
Wewelsburg presso Paderborn, l’accampamento di Carlo Magno, Himmler teneva riunioni esoteriche.
Jünger vi ha partecipato: inviarono Ernst Schäffer a cercare il Graal a
Montségur, vicino Lourdes, e dal Dalai Lama.
astolfo@antiit.eu
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