Non ci sono marchesi. Nemmeno
marchese. Il resto c’è tutto, da subito: una profusione di conti, duchi,
principi, e principesse, duchesse, contesse, si perde il conto. Insieme a
qualche nonno e un po’ di zie. Più
spesso in vileggiatura, iprimi anni: molto è questione di amicizie, anche
interessate, e vacanze familiari. Poi ci sono le signore che offrono la cena ai
giovani, per fare salotto. E la gelosia – ma ingenua, come tutto: Jean legge
una lettera trasparente che lei gli ha dato da impostare, e se gliela avesse data
apposta?
Jean è Marcel. Dettaglista,
ripetitivo. Il brutto della “Ricerca”, più che il brogliaccio. In forma di
“romanzo familiare”: la mamma e il papà sono al centro di Parigi e della
Francia tutta. “La più bella poesia del mondo” è “Le lac”, del benevolo patron Lamartine. Ma non c’è altro mondo
all’infuori di Jean. Una marchesa per la verità c’è, verso la fine, de
Valtognes. E c’è già Bergotte. Poca roba. Un libro, il IX, intitolato “Sull’amore”,
è una rassegna di milf, per lo più duchesse. C’è già il barone Charlus, si chiama
conte di Lamperolles, ed entra in scena impoverito dai ricatti degli amanti,
suicida – ma con “due
pallottole in testa”? Ci sono le argenterie. E c’è già la “piccola frase”
musicale.
Niente di memorabile, come al solito in Proust, specie dovendo sorbirselo, non si sa mai, fino in fondo. Poco anche di commestibile. Un autoritratto da giovane, X, IX, “Ritratto di uno scrittore”. L’anima dei luoghi – “I vari luoghi della terra sono anch’essi degli esseri…”. Di inedito è solo il rapporto filiale, specie con la madre. Anche la formazione, malgrado la “posa” evidente: Jean-Marcel cresce con Verlaine e Leconte de Lisle, e “una tetra noia alla lettura dei classici”, “Fedra”, “Cinna”, La Fontaine, fino a preferire “anche J.J.Weiss a Molière”. Al famoso liceo gli hanno insegnato del resto a considerare Orazio e Ovidio “personaggi piuttosto miserelli”. E che “bisogna ammirare papà Hugo che è stato un formidabile poeta, perché era un vecchio cretino”. Snobismo su tutta la linea. Benché da prendere con l’attesa ironia, il guizzo finale non manca neanche qui, sui maestri di tanta scienza, che meglio di tutto apprezzano “assaporare orizzontalmente, distesi su una panchina, il divino nirvana” dell’oppio. E sull’autore stesso, “rassegnato a vivere di vanità, poiché tutta l’esistenza era solo vanità”, dopocena, dopo aver “scritto qualche verso parnassiano”.
Niente di memorabile, come al solito in Proust, specie dovendo sorbirselo, non si sa mai, fino in fondo. Poco anche di commestibile. Un autoritratto da giovane, X, IX, “Ritratto di uno scrittore”. L’anima dei luoghi – “I vari luoghi della terra sono anch’essi degli esseri…”. Di inedito è solo il rapporto filiale, specie con la madre. Anche la formazione, malgrado la “posa” evidente: Jean-Marcel cresce con Verlaine e Leconte de Lisle, e “una tetra noia alla lettura dei classici”, “Fedra”, “Cinna”, La Fontaine, fino a preferire “anche J.J.Weiss a Molière”. Al famoso liceo gli hanno insegnato del resto a considerare Orazio e Ovidio “personaggi piuttosto miserelli”. E che “bisogna ammirare papà Hugo che è stato un formidabile poeta, perché era un vecchio cretino”. Snobismo su tutta la linea. Benché da prendere con l’attesa ironia, il guizzo finale non manca neanche qui, sui maestri di tanta scienza, che meglio di tutto apprezzano “assaporare orizzontalmente, distesi su una panchina, il divino nirvana” dell’oppio. E sull’autore stesso, “rassegnato a vivere di vanità, poiché tutta l’esistenza era solo vanità”, dopocena, dopo aver “scritto qualche verso parnassiano”.
Ci sono già i fiori, lunghe
liste. I nomi invece sono diversi, e riaprono la noiosa ricerca di chi era chi.
Dappertutto “si constatava che Jean era simpaticissimo”. Avrebbe potuto essere
– forse è stato così concepito – un romanzo di formazione, di un’adolescenza
ovviamente eccezionale. Ma lo snobismo lo ha soffocato presto, lasciando una
prova d’incontenibile narrativa, da narratore onanista. È curioso, anche
esilarante, straordinario, come tutto questo sia stato trasfigurato, riscritto
daccapo, senza adattamenti, nella “Ricerca”: un miracolo. Ma bisogna voler bene
a Proust.
Era un brogliaccio, di fogli
sparsi e alcuni quaderni, contemporanei de “I piaceri e I giorni”, il libro del
1896, per un “romanzo” abbandonato qualche anno dopo, forse nel 1901. Rivenuto
tra le carte da Bernard de Fallois, che lo ha pubblicato in tre volumi nel
1952, ordinati tematicamente più che cronologicamente. Subito tradotti
ottimamente da Fortini, il miglior proustiano, per Einaudi nel 1953, in un
unico volume. Nello stesso ordine che qui si riproduce. Con una traduzione
rivista da Salvatore Santarelli. Introdotta con un saggio invogliante da Andrea
Caterini.
Fortini prendeva le distanza
dalla compilazione di De Fallois: “Contiene diversi errori, che non si sa se
imputare alla stampa o al manoscritto. Per di più, si incontrano spesso pagine
scritte senza la minima cura, fitte di ripetizoni, di proposizioni subordinate
e relative ben lontane, non di rado, dalla fluenza e dal respiro della futura frase
della «Recherche»”. É la materia bruta, brutta, che la “Ricerca” trasfigurerà
Autore di un solo libro
Proust è più cose. Voleva
fare il Balzac di Fine Secolo – gli dedica anche un capitoletto (VII.II, “I
quartieri d’inverno di Balzac”), ma ama troppo i suoi nobili. È così, partendo
da questo “Santeuil”, che si vuole ormai autore di un solo libro, da “I piaceri
e i giorni”, coevi del brogliaccio, alla “Ricerca”. Tutto è letto e gustato
come propedeutico a. Tutto vi viene ricondotto, la saggistica, pure
differenziata, per temi. umori, narratività, la corrispondenza, idem, la poesia,
la biografia. Faticoso, e anche sbagliato. Un uomo e uno scrittore riducendo a
una dimensione. Di passione unica, lo snobismo. Di sofferenza unica, la
sessualità, per l’omosessualità da mascherare – del resto la soffrirà ancora
Pasolini, molto dopo. Mentre è scrittore comico, di parodie, aneddoti e
battute. La sua vena è cervantesiana, di ironia illimitata, o distacco critico
dal mondo – sarcastico, misantropico, dietro il sorriso. E allora deciso a prendersi
sul serio. Sulle cose meno serie, quali il name
dropping. Di cui non avverte il ridicolo, oltre che il fastidio, procedendo
come un bulldozer. .
Marcel Proust, Jean Santeuil,
Theoria, pp. XXVI-801 €20
ducendo
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