Un passaggio poco canonico, che Ravasi prova a stemperare
introducendo i due tempi dell’oratorio. –
ma non può evitare la simbologia poco cristiana dell’originale, a partire dalla
numerologia, del sette insistito, le sette chiese allora (80 d.C. circa) in
essere, di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia e Laodicea, e del
tre. La sorpresa è la musica di Panni:
musica sacra fuori dai canoni del genere. Imperniata sul sette, dice il compositore
nella nota di sala, “come elemento portante ritmico e strutturale”, ma più sui
suoni, molto poco orchestrali. Un organico di trenta fiati della banda
dell’Esercito, e un gruppo di rumoristi di cinema aggregati articolano la musica
in una sorta di linguaggio universale, degli uomini degli animali e delle cose,
di effetto ipnotico. Niente arie, motivi, armonie, danze, ma un insieme
trascinante, in una dimensione diversa. Un “rito sciamanico” lo definisce l’autore,
“una sacralità primitiva”. Lo dice anche “una cerimonia antica e senza tempo”,
ma allora in forma di lavacro, di liberazione.
Ravasi riporta la sua “idea” all’“Apocalisse” di Tarkovskij, che
dell’ultimo libro della Bibbia ha speciale conoscenza come ogni buon cristiano
ortodosso. La conferenza, poi libro, che il regista tenne a Londra nel 1984, lo
stesso anno del suo film italiano, “Nostalghia”, spiega la sofferenza dello sradicamento,
lontano dalla patria russa, dalla quale Tarkovskij era stato appena allontanato.
L’evangelista Giovanni descrive nell’“Apocalisse” tutto ciò che vede, ma tace
tutto ciò che vede nel libro del Settimo Sigillo. Una voce interna gli intima
di non esprimersi più su ciò che ora vede. E dunque l’“Apocalisse” è il libro dell’esilio
dell’uomo. Che può essere detto, ma rimane sempre al di là.
Un oratorio approntato da Panni per il festival dei due Mondi di Spoleto
2009. Una prova di abilità per il Coro e
le Voci bianche dell’Accademia di Santa Cecilia.
Marcello Panni, Apokàlypsis,
Auditorium Parco della Musica Roma
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