Antichi e moderni – Erano “moderni” i soggetti letterari tratti dalla religione e dalla storia del cristianesimo, nella prima disputa tra gli antichi e i moderni, in Francia, nel secondo Seicento. Anticipata da Tassoni e Traiano Boccalini, e prima ancora da Giordano Bruno, e prima ancora da Bandello. Le schiere erano confuse in Francia: tra i “modernisti” furono, oltre a gesuiti, due laici come i fratelli Perrault. Classicisti erano i letterati di maggiore spicco: La Fontaine, Racine, Nicolas Boileau, La Bruyère.
Antisemitismo – Molto si è detto del “non sapevamo” in guerra. Dello sterminio degli ebrei in Germania e nei territori occupati dai tedeschi. In realtà si sapeva. Non delle camere a gas, ma della deportazione degli ebrei nei campi di lavoro, fino allo sfinimento. Ne scrissero i giornali americani già nel 1942. E nell’autunno del 1943 una curiosa polemica accolse una poesia di Ben Hecht, lo sceneggiatore di Hollywood premio Oscar, “The Ballad of the doomed Jews of Europa”, pubblicata il 14 settembre.
In precedenza Hecht aveva montato sulla
persecuzione degli ebrei in Europa uno spettacolo “tutto stelle”, “We will
never die”, il 9 marzo 1943, prodotto da Billy Rose e Lubitsch, regia di Moss
Hart, musiche di Kurt Weil, con la partecipazione di molti grandi nomi, ebrei –
Edward G. Robinson, Sylvia Sidney, Paul Muni – e non – Sinatra, Ralph Bellamy,
Burgess Meredith. La rappresentazione ebbe luogo al Madison Square Garden di
New York, per un pubblico stimato in 40 mila persone, e fu portata in tour per alcune città, per una audience di circa 400 mila spettatori.
La poesia denunciava la nessuna attenzione
che nei paesi in guerra contro la Germania si dava alla questione ebraica: “Quattro
milioni di ebrei in attesa della morte\ Oh, appesi o bruciati - ma tranquilli,
ebrei!\ Non ci annoiate, risparmiate il fiato –\ Il mondo è occupato con altre
notizie…” Continuava con: “Impiccati come un bosco di rami rotti\ O bruciati in
qualche migliaio di forni nazi…” Per finire con: “Oh mondo, sii paziente: ci
vorrà tempo\ Prima che le squadre della morte\ Abbiano finito. Per Natale
potrai fare\ La tua Pace sulla terra senza gli ebrei”.
Dashiell Hammet, allora mobilitato contro
i giapponesi alle isole Aleutine, dove redigeva ogni giorno un quotidiano per
le truppe, ne scrisse allarmato a Lillian Hellman il 28-30 settembre 1943: “La
poesia di Ben Hecht è incredibile. Pensa veramente che dovremmo dire a Hitler:
mettiamo fine alla guerra se voi non uccidete più altri ebrei?” Una lettura
diversa dei versi. Che avrebbero avuto un effetto, continuava,
controproducente: “Abbiamo qui un sacco
di antisemiti. Ho testato la poesia su alcuni e funziona a meraviglia: la percepiscono
del tutto come un testo antisemita. Per essi è chiaro che la poesia ricorda che gli ebrei
dovrebbero chiudere il becco sui loro piccoli problemi nel momento in cui
grandi sconvolgimenti sono all’opera – e lo hanno anche affisso su una bacheca
affinché i pochi ebrei che abbiamo ne traggano profitto”. Una posizione scivolosa
di cui Hammett è conscio, tanto più che Lillian Hellman era di famiglia
ebraica (di “spirito levantino un po’ contorto”
la dice scherzoso nella corrispondenza), ma da cui non recede. Aggiunge infatti tra parentesi: “Ho un po’
vergogna di me; ma, Dio mio, mi viene da ridere, perché, se i suoi
correligionari incoraggiano Hecht, allora non ci si può aspettare che io uccida
sempre il Nerone che sonnecchia in me”..
Baudelaire – Ma era figlio di un padre
sessantaduenne, prete spretato, e di una ragazza ventisettenne. Orfano a sei
anni. A otto sotto la ferula di un patrigno ben presente, un militare, futuro
generale.
Decadente – Un appellativo spregiativo
che fu motivo di orgoglio. Di quelli che venivano alla fine di una “età dell’Oro”,
appena vecchia di vent’anni, con Baudelaire e Nerval. E teorizzavano il “decadentismo”,
oggi si direbbe la crisi. Una deriva forte in Francia, con Huysmans, “A ritroso”,
e la grande poesie Fine Secolo (Verlaine, Rimbaud, Mallarmé). Notevole in
Italia (D’Annunzio ma anche Pascoli). Più consistente e duratura in Russia: Brjusov,
Belyi, Sologub, Blok e fino a Pasternak.
Intellettuale – Specie scomparsa,
all’improvviso. Come i dinosauri. O come una setta che abbia deciso di
eliminarsi – l’intellettuale, diceva il “Che” Guevara, deve solo suicidarsi, e
più quello “avanzato” (nel senso di progredito, impegnato per la giusta causa,
e non di rifiuto, residuo).
Mésalliance – È del repertorio della
narrativa siciliana, il matrimonio della figlia o del figlio di nobile casato
con un villano\a arricchito\a per rimpolpare il patrimonio. Immortalata dalle
nozze del “Gattopardo” principe Tancredi
con Angelica, la figlia del borghese Sedara.
L’isola si vuole perennemente decaduta,
e quindi preda , con tutto il suo pedigree,
di gabelloti e mafiosi. Ma è lo schema di Proust, della “Ricerca”. Del
Narratore grimpeur – peggio se solo
in immaginazione. Di Gilberte figlia di una demi-mondaine
sposa di Saint-Loup – san Sebastiano doppio, in quanto nobile e in quanto
omosessuale. Della storia a ruoli rovesciati, del Narratore con Albert-ine.
Proust – È scoperta tedesca. Di E.R.Curtius,
1925, Marcel Proust”, a partire dal 1922 in “Der neue Merkur” e fino al 1925. E
di Leo Spitzer, 1928, “Stilstudien”.
La “Ricerca” Fortini (“Ventiquattro voci
per un dizionario di lettere”, 49) vuole una “Imitazione”, o una “Introduzione
alla vita beata”: “È stato detto che è tutta una «intermittenza del cuore«, ché
così Proust chiama le rivelazioni della memoria involontaria; ma più
esattamente, forse è una «Introduzione alla vita beata», una «Imitazione». È
uno strumento di salvezza: l’itinerario edificante e la guida all’itinerario vi
fanno tutt’uno”. Più che un racconto, Proust vi fa una perorazione, per “una
rivoluzione morale e intellettuale che coincida con la persuasione della vanità
di ogni realtà”. Compresa la vanità di Proust?
Roma – “Contro Roma” era esercizio dei grandi
letterati romani nel 1975, capitanati da Moravia. Che riprendevano il vecchio
slogan giornalistico di Benedetti e Scalfari, “L’Espresso”, di quasi vent’anni
prima, di “Milano, capitale morale d’Italia”, etc..”Ma quale capitale”, inveiva
il romanissimo Moravia, un distillato della romanità. Con Montale, Maraini, Piovene, La Capria, Parise,
i Buttitta, Siciliano, Giovannino Russo, non romani che avevano scelto Roma –
Montale senatore da otto anni. Ora Lagioia, che a Roma deve tutto, romano da
vent’anni, dai suoi venticinque, la dice su “la Repubblica” la Mumbai dell’Occidente,
e “una Mumbai con qualche complesso d’inferiorità rispetto all’originale”.
Seattle – La città in full swing da qualche decennio (Starbucks,
Microsoft, Hendrix, Kurt Cobain, Nirvana) deluse Hammett, che ci passò un
periodo, mobilitato, nel 1943, e apprezzò molto invece la campagna dello stato
di Washington : ”Le città del Nord-Ovest sono sinistre”, senza atmosfera, senza
eleganza”, scrisse a Lillian Hellman il
28 luglio 1943.
Selfie – Non è una novità. Forse
nemmeno come effetto massa, il genere è sempre stato popolare. Da sant’Agostino
a Rousseau. Ma già, si può dire, nel “De bello gallico”: Cesare anticipava quello
che Croce definirà nel 1941 “un perfetto atto
storico”, la memoria come azione. È il “narrar se stesso” di Manzoni. L’“esplorare
il proprio petto” di Leopardi, che molto indugiò nell’operazione.
Molto selfie sono alcune narrazioni epocali: la “Ricerca” di Proust, l’“Ulisse”
di Joyce, “L’uomo senza qualità” di Musil nel Novecento. Altre pietre miliari del
genere in Cellini, Casanova, lo stesso Vico, Samuel Pepys, Alfieri,
Chateaubriand, Darwin. Con molti religiosi, apologetici per lo più ma anche
critici, santi (Teresa d’Avila) e non (il cardinale Newman). E con i tanti “diari
intimi”, genere in voga nel secondo Ottocento, per esempio di Baudelaire, “Il
mio cuore messo a nudo”, “Razzi”.
letterautore@antiit.eu
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