Una prova di bravura: un film sul niente pieno di suggestioni. Compresa,
sotto la rassegnazione, e per quanto stinta, una forte resistenza. Non detta ma
incolmabile: non c’è amalgama con l’occupante. Che culmina nel dialogo finale
tra il padre e il figlio: il padre lavora sotto l’occupazione, il figlio la
rifiuta, ma il padre è rimasto a Nazareth, il figlio ha studiato e lavora in
Italia. “I giovani vanno via”, è la constatazione del padre, e questo, intende,
risolverà la questione. Il film, premiato dappertutto in Europa, in Italia a Roma
e Firenze, è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero, ma non è
stato ammesso in concorso.
È il terzo film in dieci anni della quarantenne regista
palestinese – anche i precedenti hanno avuto lo stesso percorso agli Oscar.
Tutt’e tre ambientati nei luoghi di origine, con lo stesso tema: il ritorno di
una persona espatriata per studio, che non si trova a suo agio sotto l’occupazione, e tuttavia non
si vede estraneo – non trova tanto sconforto quanto voglia di essere. Un’esperienza
che Jacir personalmente ha vissuto dopo gli studi in Europa e negli Usa, salvo
essere espulsa dal governo israeliano dopo il primo film - e poi riammessa. Tutt’e
tre innestati su aneddoti autobiografici. Wajid,
dovere, l’usanza tra gli arabi cristiani che il matrimonio della figlia sia
annunciato a parenti e amici personalmente dal padre e dal fratello maggiore, è
stata vissuta dalla regista per il suo matrimonio: cinque giorni di
partecipazioni, tra decine di caffé e liquorini - a cui lei però ha preteso di
partecipare.
Annemarie Jacir, Wajib –
Invito al matrimonio
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