domenica 20 maggio 2018

Non c’è Natale a Nazareth

Un film sommesso, sulla traccia del cinema iraniano. Nei dialoghi e le circostanze. Che sono una sola:  l’invito al matrimonio recapitato dal padre e dal fratello della sposa a parenti e amici. Un’occasione per incontrare tipologie umane e situazioni diverse,  seppure ordinarie. Recuperando linguaggi in via di sparizione, per anacoluti, sintesi, pause, silenzi. In una Nazareth in antifrasi col senso comune, cristiano, del luogo. Sono i giorni di Natale, ma polverosi e anonimi, se non per qualche Babbo Natale di pezza e un paio di alberelli di plastica dimenticati in salottino. In una città che è l’esatto opposto della memoria evangelica: palazzoni, ingorghi, liti per il traffico, sporcizia. Uno spettacolo di rassegnazione. Tra interlocutori quasi tutti in età.
Una prova di bravura: un film sul niente pieno di suggestioni. Compresa, sotto la rassegnazione, e per quanto stinta, una forte resistenza. Non detta ma incolmabile: non c’è amalgama con l’occupante. Che culmina nel dialogo finale tra il padre e il figlio: il padre lavora sotto l’occupazione, il figlio la rifiuta, ma il padre è rimasto a Nazareth, il figlio ha studiato e lavora in Italia. “I giovani vanno via”, è la constatazione del padre, e questo, intende, risolverà la questione. Il film, premiato dappertutto in Europa, in Italia a Roma e Firenze, è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero, ma non è stato ammesso in concorso.
È il terzo film in dieci anni della quarantenne regista palestinese – anche i precedenti hanno avuto lo stesso percorso agli Oscar. Tutt’e tre ambientati nei luoghi di origine, con lo stesso tema: il ritorno di una persona espatriata per studio, che non si trova  a suo agio sotto l’occupazione, e tuttavia non si vede estraneo – non trova tanto sconforto quanto voglia di essere. Un’esperienza che Jacir personalmente ha vissuto dopo gli studi in Europa e negli Usa, salvo essere espulsa dal governo israeliano dopo il primo film - e poi riammessa. Tutt’e tre innestati su aneddoti autobiografici. Wajid, dovere, l’usanza tra gli arabi cristiani che il matrimonio della figlia sia annunciato a parenti e amici personalmente dal padre e dal fratello maggiore, è stata vissuta dalla regista per il suo matrimonio: cinque giorni di partecipazioni, tra decine di caffé e liquorini - a cui lei però ha preteso di partecipare.
Annemarie Jacir, Wajib – Invito al matrimonio

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