Cristiano . Non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce ha un antecedente in Tertulliano: l’anima è per natura cristiana.
Le
due versioni sono diverse. Ma solo in apparenza. Croce intende che la nostra
tradizione o storia recente, di italiani, europei, occidentali, la storia che
ancora ci confronta, è cristiana. Ma la storia, la tradizione e la cultura sono
la forma mentis, sono l’anima. Noi non sapremmo pensare che da cristiani, anche
quando siamo agnostici o increduli o anche anticristiani.
È
una questione di linguaggio, mancando l’oggetto – la cosa? Ma il linguaggio è
cosa – anche oggetto: il peccatore resta cristiano, lo sradicamento dovrebbe essere
più complessivo, e non sapere di sradicamento.
Donna – Senza, non c’è
poesia? Secondo Barthes senza l’edipo e il matrimonio non ci sarebbe
letteratura. Ma allora della donna in forma di madre. Balzac gli dà ragione, dà
ragione a Barthes. Ma le belle letterarie sono di autori che a vario titolo non
si sono fidanzati, Petrarca, Stendhal, Flaubert. E di Tolstòj, che si sposò e fece molti figli, ma le donne
non amava.
Illusione – È ambivalente: è
inganno, ma è anche ciò che eleva l’animo Gli ideali, gli slanci passionali.
Ciò che è proprio dell’uomo. Che la ragione riduce a inganni, ma sono ciò che è
proprio dell’uomo – la funzionalità nel senso della conservazione o della
sopravvivenza essendo meccanismo automatico, “naturale”. È illusione tutto ciò che
si crea, nella poesia come nell’arte pratica – l’invenzione, l’ammodernamento,
l’affinamento.
È
l’ambivalenza che Leopardi sente specialmente forte, per l’illusione creatrice
– la gloria – lottando con tutte le sue forze contro la nemica illusorietà. E,
da scienziato, contro la ragione, in quanto precluda la felicità intesa come
possibilità di essere grandi, cioè felici. La natura umana vuole la fede nella
vita, gli ideali, come tensione verso un perfezionamento, e quindi il
meccanismo della civiltà, del miglioramento verso il bene.
Io - Disse Budda appena nato: “Sono il primo e il migliore. Vengo a
porre fine alla malattia e alla morte”. Tutto è io? Non è la ricetta migliore.
Il troppo non basta mai, è il solito scriversi sulla carta assorbente, parole
dilatate. Ma bisogna pur parlare di se stessi, con se stessi. Seppure al modo
del Nettuno
dantesco che dentro l’acqua in cui vive, il suo liquido amniotico, vede l’ombra
volteggiare in cielo di Argo, l’argonauta.
Marx – Si celebra in
clima liberista come innovatore e libertario – si dice utopista. I socialisti e
i comunisti che via via attacca e sconfigge con le sue inesauribili cistke e scomuniche sono grassi,
forforosi, calvi, vecchi, e solo burocrati, presentati di fronte, dietro un
tavolino, maggioranze già morte, cenere da soffiare via. Con lo schema Sansone,
Marx contro tutti. Assortito dalla metodologia Orazi e Curiazi, l’eliminazione
degli avversari uno alla volta.
Di
fatto è invece ovunque strumento del dispotismo e dello sfruttamento. In Cina e
in Vietnam il boom è stato costruito
con le paghe da fame, in condizioni di lavoro, ambientali e d’orario, da campo
di concentramento, grazie al partito Comunista al potere. E in troppi casi a
beneficio di un capitalismo di Stato che è fatto di corporazioni – la Polizia,
la Regione X o il Distretto, il Corpo militare Y – protette dal Partito
comunista, l’assise di tutto. Il miglioramento progressivo si è imposto al sistema carcerario per
ragioni e obiettivi di mercato.
Cacciari
ne fa l’“economico”, pensatore quasi unico. Ma non è il primo – né il più fine:
innovativo con ragione. Sì però nel senso dell’avidità e dell’accumulazione. Da
accusatore – da libertario anarcoide. Ma pur sempre teorico dell’individualismo,
e dell’appropriazione come costitutiva dell’individuo. Senza altre funzioni o
passioni: l’individuo è economico, e l’economia è accumulazione – appropriazione,
avidità. Una “contraddizione”, nella vecchia
terminologia “marxista”: da libertario anarcoide celebrare l’individualismo e,
eppure sotto la forma della condanna, dell’avidità, come specie universale, il
plusvalore (guadagno, profitto), lo sfruttamento. Non essendoci altra realtà,
secondo il suo “materialismo”, se non ridotta a superstrutttrura, sempre
secondo il gergo “marxista”.
Morte – Richiama - per
nessun altro motivo, certo, che l’assonanza - il calciatore Mortensen. Che fu noto
per correre verso il nulla, l’area vuota del campo, l’angolo morto sulla linea
di porta, e da qui, mentre tutti lo guardavano stupiti, tirare a effetto, e
qualche volta fare gol. Un gol alla Mortensen in zona Cesarini, con tiro
improbabile cioè all’ultimo istante utile, è la summa dell’evento. Anche se
dovesse influire sul punteggio – anzi.
Passione – È patire, non una bella cosa. È da Omero
che la psicologia, umana e divina, ha coscienza di esser dominata da passioni
irresistibili e inspiegate, in forma di possessione. Che ogni volta lasciano un
segno, ed ecco le metamorfosi: l’ira di Achille, l’inganno di Ulisse.
Più forte e comune è la possessione in forma
di amore. Ma né in Omero né dopo si spiega come a queste metamorfosi resti
indenne chi le provoca, sia esso ninfa o diavolo. È il problema della bellezza,
che molti trasforma, forse pure gli dei, e può restare inalterata, inalterabile.
Pessimismo – Nietzsche lo
sistematizza in uno dei “Frammenti postumi 1888-1889”, come auto recensione
alla “Nascita della tragedia”. Una delle novità dell’opera è “la concezione del
pessimismo, di un pessimismo della forza, di un pessimismo classico”. Non di un’epoca ma di una psicologia: “Il contrario del
pessimismo classico è quello romantico:
quello in cui si forma, in concetti e giudizi di valore, la debolezza, la stanchezza,
la decadenza della razza”. Un pessimismo, aggiunge subito, che è di Schopenhauer,
De Vigny, Dostoevskij, Leopardi, Pascal, “quello di tutte le grandi religioni
nichilistiche (brahmanesimo, buddismo, cristianesimo)”. A questa
rassegnazione-negazione Nietzsche contrappone “la spontaneità della sua propria
visione psicologica, una vertiginosa ampiezza di sguardo, di esperienza
interiore, di intuizione, di rilevazione, una volontà di coerenza, l’intrepidezza
di fronte alla durezza e alle conseguenze pericolose”.
Di
Leopardi l’appartenenza al filone distruttivo è dubbia – erano gli ani in cui
Nietzsche, dopo una lunga infatuazione, voleva distinguersi dal “più grande
prosatore del secolo”, Leopardi appunto. Di Schopenhauer invece il pessimismo è
organico, il rifiuto dell’esistente, perfino livoroso. In contrasto con la
dialettica, di cui Schopenhauer fa esercizio acuto - e, nota Walter Otto
commentando il rapporto “Leopardi e Nietzsche”, col suo modo d’esistenza: “E
stranamente ci colpisce vedere la sua vita in deciso contrasto col suo
insegnamento”. In Leopardi invece è costante un’ambivalenza – che lo stesso
Otto mette in risalto - nel tema ritornate della “illlusione”. Come menzogna e
come, invece, motore della creatività, il proprio dell’uomo. Nell’uno e
nell’altro, nota Otto, essendo costitutiva e riconosciuta la volontà di
creazione, e non, naturalmente, come dote personale bensì come qualità dell’uomo
– come “fioritura di bellezza”, aggiunge lo studioso, che accomuna Leopardi per
questo aspetto a Hölderlin, “malinconicamente lieta”.
zeulig@antiit.eu
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