Classico - Il classicismo
va riletto, l’attitudine olimpica. Delfi e Olimpia erano banche, i tesori si
prendevano a prestito. E la democrazia di classico ha solo i
discorsi di Tucidide, insana com’era, furba, sempre violenta, alimentata da
schiavi e colonie. La bellezza era negli orpelli, quella evansiana a Creta è al
confronto di buon gusto classico. Non c’è tribù che non apprezzi il corpo
dipinto: se dalla colorazione al naturale il passaggio è di civiltà, i greci
classici erano primitivi – primitivi che scrivevano. Achille è un pazzo, Ulisse
un furbo malvagio, un ladro di cavalli. Non si può non tifare Aiace, “il leone
impazzito”, cui Ulisse sottrae l’armatura d’Achille: l’eternauta è un
corruttore, per il più che fondato sospetto che si sia comprato i giurati, e
un piantagrane, dell’armatura di Aiace non ha bisogno e non la userà. Non sono
macchie nella Grecia luminosa del logos, bisogna rifare la scala delle
passioni e della virtù. Tutta la guerra è una macchia sul logos acheo, i
vincitori morali sono i vinti troiani, combattenti miti, il mito greco è molto
poco greco. Tanta lucida argomentazione è sempre espediente al tradimento –
quello di Tucidide per primo: quanto sono vergognose sia la democrazia di Atene
che il suo odio della città che l’ha esiliato in quei discorsi che s’inventa
nella “Guerra del Peloponneso”. A Monaco, dove Pericle non c’era, Tucidide
avrebbe dato ragione a Hitler.
Controllo
–
È diventato circolare. Le vecchie distopie tiranniche e totalitarie, dalla
Bibbia a Orwell, immaginavano un grande occhio al di sopra di tutto che tutto
puntava. Ora il Grande Occhio-Orecchio si è materializzato nei minuti eventi
della vita, attraverso l’uso monitorato del cellulare, degli acquisti, degli esercizi
pubblici visitati, dei percorsi anche minimi, grazie ai circuiti di
videosorveglianza ai fini della sicurezza (videocamere e droni), e con l’ascolto
generalizzato delle conversazioni (intercettazioni) e corrispondenze altrui. Alla
portata di tutti e di ognuno. Anche degli indiscreti – hacker. Con possibilità
di manomissione, se non altro della loro (dei dati) riservatezza.
Dio
– Giardiniere,
dell’effimero? Tale lo immagina Fontenelle, “Conversazioni sulla pluralità dei
mondi”, in polemica con l’ateismo sensista: “Se le rose, che durano solo un
giorno, scrivessero la storia, farebbero del loro giardiniere un ritratto a
loro modo, e come un essere di più di mille generazioni di rose. Le successive,
nel tramandarlo alle altre , non cambierebbero una parola. Su questo punto
direbbero: «Abbiamo sempre visto lo stesso giardiniere. A memoria di rosa, non
si è mai visto altri che lui»”. L’uomo dura più della rosa. Ma la sua memoria?
Quello di Fontenelle è “il sofisma
dell’effimero”, obietta Diderot nel “Dialogo di D’Alembert”: “quello di una
creatura passeggera che crede nell’immutabilità”. Che “crede”, però, non è
effimero né sofistico, è un’altra cosa.
Durata –Se ne travia in letteratura, da Proust in qua, il concetto, riducendolo a guardarsi l’ombelico – una “pizza” in termini narrativi: un rimirarsi come rimuginare, ruminare, in surplace. Mentre è certo concetto innovativo e quanto mai veritiero in Bersgon, La grande novità della speculazione del filosofo francese consiste nell’avere identificato il tempo vissuto con la “durata”, che, per sua natura, non è percepibile mediante l’intelligenza, ma attraverso la memoria e la coscienza. Nel “Saggio sui dati immediati della coscienza” scrive: “Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento delle lancette… non misuro una durata, come pare si creda, mi limito a contare delle simultaneità, il che è molto diverso”. Il tempo astronomico dell’orologio è, infatti, un insieme di posizioni delle lancette sul quadrante che al passare degli istanti prendono posizioni diverse. È così che “noi non percepiamo praticamente che il passato”, aggiunge, “dal momento che il puro presente è l’inafferrabile progresso del passato che fa presa sul futuro”.
Filosofia
.
Quella dei philosophes non regge, non
oltre l’aneddoto. Anche di aneddoti che avrebbero potuto avere sviluppo
approfonditi, meno smart, di pronta
presa. Tipo l’ “anima si Angélique, la figlia di Diderot, come la bambina la
spiegava alò padre nell’agosto del 1867: “Qualche giorno fa mi è venuto in
mente do chiederle cos’è l’anima. «L’anima?», mi risponde. «Ma si fa
dell’anima, quando si fa della carne?»”
Isola
– È
concettuale, oltre che fisica. Come ogni senso figurato, ma di più. U.Eco (“Costruire
il nemico”) classifica quattro tipologie di miti, corrispondenti a quattro
tipologie di isole: “Le nostre fantasie sulle isole si muovono, ancora ai
giorni nostri, tra il mito di un’isola
che non c’è, e cioè il mito dell’assenza, quello di un’isola che c’è troppo, e cioè il mito dell’eccedenza, quello di un’isola non trovata, o mito
dell’imprecisione, e quello di un’isola
non ritrovata, ovvero un mito della insula
perdita”. Eco se ne occupa in riferimenti alla letteratura, alla narrazione
più che alla poesia (Stevenson, Verne, Peter Pan). Ma all’“isola” sottostà un
approccio alla condizione umana. Non necessariamente asociale.
Scetticismo – Negato
curiosamente da Diderot, con negazione cioè che lo afferma – posto che esso è
sinonimo di dubbio e non di verità. Nell’immaginario “Dialogo tra D’Alembert e
Diderot”, scritto interamente da lui, procede così:
“DIDEROT. Credete che vi sia una sola
questione sulla quale un uomo, dopo averla discussa, resti con un’eguale e
rigorosa misura di ragioni pro e contro?
D’ALEMBERT. No, sarebbe l’asino di
Buridano.
DIDEROT. In tal caso non esiste allora nessuno scettico, poiché, ad
eccezione delle questioni matematiche – che non comportano la minima incertezza
– in tutte le altre vi sono dei pro e dei contro”. Su cui cioè bisogna
esercitare la critica.
Segreto
–
Simmel, “Il segreto”: “Ogni segreto è un segreto vuoto”.
Tribù - Non c’è tribù che non apprezzi il corpo dipinto. Il ritorno al
corpo dipinto, sia pure in forma di tatuaggio, esprime un desiderio tribale, di
riconcentrazione, magari a fronte della globalizzazione? O è il contrario, una
forma di omologazione universale, globale. Un’umanità, si può dire, in forma di
tribù.
È
tribale l’Amico\Nemico, la dialettica politica e sciale di Carl Schmitt. Una
persistenza che però di oblitera.
Verità Presuppone
l’incertezza. Come la realtà presuppone l’irreale, o il non conforme, l’eccezione.
E la morale – la scelta, la decisione – l’ambiguità, la nebbia persistente. La
radice dialettica è ontologica oltre che conoscitiva, o pedagogica.
Viaggiare – Si viaggia in interiore
homine. Per stabilire-annullare la lontananza (“L’uomo è l’amico della
lontananza” di Heidegger) – per mantenersi in esercizio.
È il
paradosso di Pirro e Cinea in Plutarco. Dove il filosofo s’informa dei progetti
del re dell’Epiro, a ogni tappa opponendogli un “e dopo?” – “conquisteremo la
Grecia”, “e dopo?”, “conquisteremo l’Africa”, “e dopo?”, e così via. Dopo
l’India Pirro dice: “Dopo mi riposerò”.
“Perché allora”, conclude il padre del cinismo, “non riposarti subito”.
M non si può: si fa il viaggio come si vive, si va per segmenti, per
intervalli, da un “luogo” all’altro.
zeulig@antiit.eu
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