Tema
arduo, Pirandello è la Sicilia, in
parole, opere e omissioni. Che non si possono qui rivangare: il qualunquismo
(contro il “sistema”, la corruzione, ma per Mussolini), la roba (il suocero
costretto a reintegrare la dote che il padre di Pirandello ha dilapidato), la
loicità (la non passionalità, o allora collera violenta), l’amore
incondizionato per la terra d’origine, tenendosene lontano.
Sciascia
non amava Pirandello. Al suo fascismo ascrive anche l’apprezzamento d Henry
Ford, il discusso imprenditore americano (era antisemita mentre era socialmente
impegnato per i suoi lavoratori, per l’occupazione di tutti e per le condizioni di
vita delle famiglie). Ne scrisse molto, in quanto Grande Siciliano, ma senza un vero interesse,
nemmeno pietas. Ne scrive in questa
raccolta del 1961 come a un tiro di freccette su un bersaglio che arrotola e
srotola, con dispetto, perfino sadico.
L’unica
non cattiva di tutto il libro è che “il carattere origjnale che muove e spiega
tutto Pirandello, è una qualità elementare, molto rara, la più rara: il candore”. Ma è di Bontempelli, in una
dimenticata commemorazione di Pirandello il 27
gennaio 1937 all’Accademia d’Italia. Che Sciascia s’ingegna a demolire,
acculando Pirandello al realismo – come se il realismo (verismo) non fosse, non
potesse essere, candido (ma allora, direbbe Sciascia, si è ma visto un siciliano candido?)
Molto
è sul rapporto tra Pirandello e Tilgher. Molto intorno al tema Spagna-Sicilia,
fin dalla prima pagina. Compreso “il personaggio che parla di sé in quanto
personaggio” (Américo Castro), ricondotto originariamente al “Don Chisciotte” –
mentre è non isolata strategia teatrale dagli inizi, dalla tragedia greca.
Esemplare
invece il saggetto su Verga, più nelle corde, ”Verga e il Risorgimento”. Di
Verga che porta alla “scoperta” della Sicilia. Per primo a se stesso: “Verga
inconsapevolmente portava questo popolo nel flusso della storia; ponendolo,
nella luce della poesia, come «problema storico» nella coscienza della nazione
e dell’umanità. (Sappiamo bene che c’era già una «questione meridionale»: ma
sarebbe rimasta come una vaga «leggenda nera» dello Stato italiano, senza
l’apporto degli scrittori meridionali)”. E Verga autore di romanzi storici
nella vena di Manozni, e poi di Thomas Mann , di un “passato che si fa presente”.
Nel solco tracciato da De Sanctis – un caso unico , “di un critico come De
Sanctis che anticipi la definizione di uno scrittore come Verga”.
Un
raccolta in realtà di saggi sparsi, tutti quelli che aveva fino ad allora
scritto sulla Sicilia, su Pirandello e Verga, e su Navarro della Miraglia, la
mafia, Domenico Tempio, i fatti di Bronte, e “Il Gattopardo”. Anche Tomasi di
Lampedusa irrita SciAscia, semrpe per la pregiudiziale politica, ma non sa non riconoscerne la
qualità letteraria. Bronte racconta in breve con una vivezza e accuratezza che
non si ritroveranno nei più ampii studi di Lucy Riall.
Sulla
mafia ha già, 1957, la definizione che manterrà, la più articolata: “Una
associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento, per i propri
associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il
lavoro; mediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza”. Ma indulge
ancora alla mafia vecchia, buona, e ha perfino una “mafia di sinistra”.
Il
libro è in realtà “Sciascia e la Sicilia”, il primo di tanti. I saggi su Pirandello
aveva elaborato, spiega nella nota alla prima edizione, per una sorta di
antologia per altro editore, mirata sul rapporto tra Pirandello e la Sicilia,
non sull’opera pirandelliana. Pubblica i materiali approntati “insieme con
pochi altri su scrittori e cose della Sicilia”. Su Pirandello mettendo le mani
avanti: “Non sono un critico di professione: e questo libro vuole essere una «notizia»
della Sicilia attraverso particolari letture ed esperienze”. Allora era ancora
forse peggio di oggi, bisognava dare “notizia” della Sicilia, per farla esistere.
Con
Pirandello si riconcilia alla fine, nella commemorazione del 10 dicembre 1986 a Palermo. Quando lo accomuna a Kafka e Borges come la triade
che ha modellato il Novecento - Proust
relegando, con Savinio, al Grande Minore, il poeta della decadenza, di una specifica,
angusta, decadenza. Riconoscendo di averne trattato “scontrosamente, e anche
con un certo rancore, prima”. Ma, dopo, “cordialmente e serenamente” –
sbollita, va aggiunto, la perentoria
certezza politica. È che, si giustificava, “sui libri di Pirandello io ho
passato molte ore della mia vita; e moltissime a ripensarli, e riviverli”.
Radicandolo nella Sicila, e nella “religiosità”, che Pirandello rivendicava, per
sé e per la sua opera. Nonché in Montaigne e, antagonisticamente, in Pascal –
che invece sono riferimenti del tardo Sciascia.
Leonardo
Sciascia, Pirandello e la Sicilia,
Adelphi, pp. 253 € 14
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