lunedì 11 giugno 2018

Quando Roma si faceva amare

Una dichiarazione d’amore per Roma. Celebrata di giorno e di notte. Nei vicoli e nei palazzi. Nel ponentino balsamico e nel tanfo dell’afa.  Palazzeschi abbandona per Roma l’inseparabile ironia, ne è innamorato. Della pancia allora – 1953 - di Roma, che erano le viuzze del centro, tra Campo di Fiori, Navona e Campo Marzio. In anticipo e in controtendenza rispetto al vezzo che sarà romano di parlare di Roma, per denigrarla.
Una celebrazione di Roma in assoluto, e rispetto alla Firenze natia, stantia. Il vero centro del Rinascimento. Roma “non si era lasciata capovolgere i valori della vita. Fra paganesimo e cristianesimo aveva saputo prendere ma anche tenere”: “Il piagnone a Roma non era un prodotto possibile e il frate ferrarese” Savonarola “di fronte ai romani avrebbe dovuto contentarsi di carezzare loro le orecchie”. Firenze non è arrivata al Rinascimento: “Si procede per reazioni in Firenze, e dopo il Rinascimento il carattere medievale permane”.
Fra contesse, principi, giovani maschi e giovani femmine, chiese, cupole,  non si fa che parlare (bene) di Roma. “Il romano non è eccessivo, non è estremista né ribelle”, inteso come un complimento. “Roma è città d’equilibrio, pigrizia e indifferenza”. E se “non è romantica a Roma la notte lunare”, e nemmeno “la luna tra le rovine”, è però una liberazione - è di “splendido pallore”. La lista sarebbe lunga. Fino alla dichiarazione finale, preceduta dall’elenco amoroso delle cupole che sullo scrittore quasi ottantenne vegliano erette: “Roma, Roma, Roma, Roma, giovane e decrepita, povera e miliardaria, intima e spampanata, angusta e infinita”.
Aldo Palazzeschi, Roma

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