La globalizzazione è stata ed
è un’altra scoperta dell’America. Tre o quattro miliardi di persone, tra le
potenze asiatiche e i bric, sono entrate nella rete dell’affluenza, se non del
benessere. Con una moltiplicazione senza precedent della ricchezza. Con
acquisizioni enormi anche nel campo dei diritti civili e politici. Ma presto il
disegno è stato piegato da forze non tanto occulte del capitale, e tuttora vi
soggiace. All’insegna della speculazione – cioè dello sfruttamento: di Borsa,
fiscale, sui prezzi (deflazione), sulle retribuzioni, sul reddito. Una
distruzione, anche, della ricchezza. Con perdite civili e politiche.
Crouch, politologo di
professione, è stato vent’anni fa analista benemerito di quella che ha chiamato
la “postdemocrazia”: la deriva delle democrazie, sotto la facciata e i rituali,
verso oligarchie di fatto. Ma quell’analisi sembra avere dimenticato, e ora
l’esito traspone a causa. Il capitalismo dobbiamo salvare, dice, dalla
xenofobia, il nazionalismo, il protezionismo, che racchiude nell’indistinto
populismo. No, questa è la reazione all’oligarchia degli interessi. E,
paradossalmente, gli appelli come il suo fanno gli interessi che vorremmo o
dovremmo contrastare.
Il riformismo dev’essere
molto raffinato per non servire gli interessi dominanti. Crouch propone una
emendazione attraverso una dimensione sempre più sovranazionale della politica
e delle istituzioni. Discorsi già noti, dai tempi di Obama, e sono quelli che
hanno portato la globalizzazione nell’impasse.
Bisogna leggere l’attualtà
fuori dagli schemi, per quanto bene intenzionati. È il “mercato”, il lato nero
del capitale, l’affarismo, che ci butta sulle palle i Trump. Sdegnarsene non
basta, non è riformismo: è servire gli interessi dominanti, al meglio perdere
tempo e forze.
Colin Crouch, Salviamo il capitalismo da se stesso,
Il Mulino, pp. 109 € 12
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