mercoledì 6 giugno 2018

Secondi pensieri - 348

zeulig


Corpo nudo - Il corpo è Cristo, Cristo è anzitutto un corpo. Nudo per lo più. Non c’è più nudo che nelle immagini sacre cristiane - per i pittori il corpo racconta meglio l’anima.
Anche per gli scultori. Ci pensò molto Michelangelo dopo avere ideato il Cristo nudo. Si discuteva all’epoca, da un paio di secoli, se mostrare nelle arti il Dio-uomo nell’interezza del corpo, e la Vergine nelle fattezze di Eva. Ma in gioco era l’autorità della chiesa. Paolo IV la esercitò imponendo le mutande ai nudi di Michelangelo nella Sistina. Michelangelo lavorò una dozzina d’anni al Cristo morto, senza finirlo, e se lo tenne in casa. L’aveva scolpito dai piedi al grembo, ma poi ne grattò, o non ne polì, le pudenda, che così si segnalano. Anche il braccio destro, che ha funzione di quinta per mostrare il grembo del Cristo, è scolpito e levigato. La cosa al centro del blocco è ora messa in ombra dalla patina che Manzù vi ha soprammesso, quando Milano lo incaricò di sistemare la Pietà al Castello: un’emulsione cerosa per dare al marmo levigatezza analoga alla Pietà di San Pietro, un nitore ingrigito che si assimila al sacro. Ma non estingue il senso vivo del blocco, la scena della morte.
Quella privata di Michelangelo è una deposizione tonica, di chi va alla resurrezione, e un reperto unico, diceva bene Wittgens, ma per il lato oscuro della cosa. Che Gesèben Sirah, il Siracide, nel canone greco delle Scritture antevede: “Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà”. C’è chi è per l’eterna Pasqua, la festa di resurrezione dei corpi, non è peccato.

Al cimitero si esercita il culto dei corpi: le anime dei morti non ci sono, solo il corpo. Si coltiva quello che resta, ma non si sente l’anima, non si vede, senza corpo.

Si finge che sia la Madonna a reggere il corpo nel blocco di Michelangelo aSan Pietro, mentre si sa che fu Maria Maddalena ad andare per prima incontro al Risorto. Incontro democratico, tra Dio e la puttana. Ma anche ritorno di Dio alla carne, al corpo.

Incredulità – È un’altra forma di fede - credulità. Si pubblica una foto di Salvini e Di Maio dopo il giuramento del governo al Quirinale con la didascalia: “Il sorriso di Di Maio e la faccia di Salvini. Il giuramento dell’incredulità”. Cioè della credulità, se non della credenza o vera fede.
Quest’epoca di crisi - che non crede a nulla – è perfino credulona. Nella macrobiotica, la dieta liquida, l’antibiotico, l’industria verde. O, nel caso di Scalfari col papa argentino, di mera curiosità – oltre per ricavarne un libro con cui scalare le classifiche e gli annali. Lo scetticismo, il metodo dell’indagine, è esercizio vago (difficile) di equilibrio e non di accetta, non di passione  (è passione della non passione), mai conclusivo. 
Gli studi incontestati di L.Febvre sul Cinquecento, il secolo delle Riforme - da quello su Rabelais (“Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais”) al saggio sul “Cymbalum” di “Des Périers” (“Origène et Des Periers”), libello ateista modellato su Celso, sul “Discorso vero”, e alla raccolta postuma di saggi “Au coeur réligieux du XVIe siècle” - ne fanno un secolo religiosissimo. Rilevando l’anacronismo, l’applicazione al Cinquecento delle categoria positiviste o materialiste dell’Otto-Novecento. Si combatteva per più fede.

La sospensione dell’incredulità è di Coleridge, applicata alla letteratura, alla poesia. Si può dunque dire così: l’incredulità è lo “stato normale”, che si sospende per ogni lineamento o baluginio di verità - di fede o anche di fantasia.  

Lamentazione – È ciclica? I migranti, un tempo pieni di silenzio, raccontano in dettaglio infiniti malanni. Pure le giovani, e i giovani, hanno nozioni patologiche estese, e quanti non sono i dolorini alla schiena.
Va con la crisi. Che ora è coltivata – la crisi artificiale andrà con l’intelligenza artificiale? È l’ansia del ricco per l’erosione delle rendite – la crisi è occidentale: pesa più degli infarti, i tumori, i terremoti, gli incidenti stradali, le epidemie.
Non si parlava mai della morte, non in letteratura, neppure nelle trincee, o nei lager, e sembrava buona norma, ora si fa con diletto. Non per carità, al contrario, è buttare il mondo infetto addosso all’interlocutore, una cosa da untori.
Il destino è anche sociale, e delle epoche storiche: sembra che, cessando il bisogno, si sia perduto il giudizio, e ogni stimolo al lavoro ben fatto. Le formazioni sociali sono vuote, e non per mancanza di volontà, è come cantare col naso. Di tale banalizzazione sono specchio la letteratura e la filosofia, gonfie di falsità: melasse, concettismi, oltraggi, tutto coltivato e insulso, ma tutto tremendamente dolorifico.

Linguistic Turn – È stato, è, uno strumento di potere accademico negli Stati Uniti, i dipartimenti di inglese portando al centro delle scienze umane, dei dipartimenti umanistici. Ne fa un preciso quadro Laurent Binet, il romanziere, in “La settima funzione del linguaggio” (chi ha ucciso Roland Barthes?): “Per i dipartimenti d’inglese la French Theory è stata lo strumento di un putsch che ha permesso loro di passare dalla quinta ruota della carrozza delle scienze umane alla disciplina che ingloba tutte le altre, perché se la French Theory parte dal postulato che il linguaggio è alla base di tutto, allora lo studio della lingua significa studiare filosofia, sociologia, psicologia… È tutto qui il famoso linguistic turn”.  È tesi non peregrina, illustrata nel capitolo americano dell’“indagine” sulla morte di Barthes, “Ithaca”, che la fortuna del “pensiero continentale” negli Stati Uniti , da Jakobson a Foucault, Barthes, Eco e Derrida, malgrado l’avversione di accademici illustri e potenti del ramo, da Chomsky a Searle, sia dovuta a un riequilibrio dei poteri accademici. L’argomentazione  Binet affida a un personaggio fittizio, Morris Zapp, “il” cattedratico tuttofare (tutto-potere) di  David Lodge, “Scambi”, 1975.

Natura – È totalitaria. Tale che nessuna difesa è possibile - ci si può difendere da Dio, dalla natura no. Nulla di russoviano.

Passato – Privarsene è illiberale, per quanti pesi e equivoci possa addurre. È la morale di S. de Beauvoir, “Per una morale dell’ambiguità”. Il Medio Evo in effetti, che ha dimenticato o trascurato l’antichità, l’Alto Medio Evo, si considera epoca oscura e quasi barbarica.
Ma illiberale con se stessi? Nella prospettiva individuale ombre proietta più che luci, tra condizionamenti per imprinting e rimozioni. Un Tarzan non vivrebbe più felice?

Pedagogia – È ineliminabile. “L’educazione può tutto, perfino insegnare agli orsi a ballare”, la nota tagliola ironica di Leibniz è naturalmente vera, e pericolosa, come lui la intendeva. Ma il contrario è anche vero. In peggio? L’esito della riforma Malfatti, 1975, ch ha introdotto le famiglie nella gestione della scuola, ha finito per portare alla contestazione permanente della scuola, in ogni sua forma, che sia permissiva o restrittiva, innovativa o tradizionale, produttivista o lassista, cioè alla dissoluzione della scuola, oltre che della funzione pedagogica. Esito sicuramente non f elice per nessuno, non per il giovane né per la società e la stessa famiglia, oltre che per gli insegnanti – professione in crisi di vocazioni. Il senso del potere insito nella funzione pedagogica trapassato nelle famiglie non è meglio gestito – con misura e accortezza, al miglior fine.

Politica – È totalitaria. Ormai da mezzo secolo. In Occidente - Usa e Europa. Da quando è stata rigettata o sfidata. L’Autonomia si voleva post-politica – la politica della post-politica. Poi è venuta l’antipolitica, dei corpi separati dello Stato – una forma di golpismo. Ora il populismo, il governo degli anonimi. Sempre contro la politica come critica e dottrina-filosofia (ideologia, “sistema”). È la politica del rigetto o della sfida. Comunque avvolgente, assorbente: totalizzante.

Probabilità È la pompa del vizio, secondo Proust (“Jean Santeuil”, V,II, “Lo scandalo Marie”): “Fra due probabilità, la più gradevole è la più probabile”. Si scommette con fiducia nel caso.

Solitudine – È iperattiva, frenetica. O allora oblomoviana – inerte, assente. Il primo caso è più frequente, anche per ragioni di sopravvivenza. La solitudine si vorrebbe assimilata al sorriso del gatto del Cheshire: far perdere le tracce, esserci senza essere reperibile. E invece nella solitudine non vale l’essere ma il fare. Robinson ne esce così, e chi non è nato robinsoniano, essendo europeo? O nato piuttosto negro di Robinson, ci si trova facilmente bene dentro il tuttofare.

Storia - Landau, il fisico, diceva che il tempo può andare indietro, e che se ciò non fosse andrebbe contro natura. Celan lo conferma: “Io sono,\ sono il già stato”. Ciò che difetta al presente è la coscienza storica, della continuità nella rivolta. La storia è labile. Senza radici si procede psicolabili.

zeulig@antiit.eu

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