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domenica 3 giugno 2018

Chi ha ucciso Roland Barthes

Un thriller semiologico sulla semiologia. Detto così, sembra una pizza e non il thriller che si vuole. Ma Binet, semiologo mancato accademicamente, negli studi e poi nell’insegnamento, sa trattarne in ogni intima piega – la semiologia, da Peirce e Saussure a Barthes e Umberto Eco, si vuole inconclusiva, ogni porta aprendone un’altra – “ogni decrittazione è una crittografia” può dire l’autore sardonico. Nel segno dell’avventura, da Parigi a Bologna e a Venezia, quindi a Parigi, con uno spruzzo d’America, e a Napoli. Tra spie e controspie francesi, bulgare, giapponesi, terroristi, delinquenti spiccoli.
I bulgari ci volevano, siamo nel 1980: non stanno già preparando l’attentato al papa  - e a Binet è mancanto l’“incidente” a Berlinguer sette anni prima? E sette è ben il numero magico. Di cui anche alla decrittazione del codice 007: “00 è il diritto a uccidere e essere ucciso”, mentre 7 “è di tutti i numeri uno dei più eleganti, un numero magico carico di storia e di simboli”.
Un romanzo di segni alla Umberto Eco, sorridente. Un thriller filosofico è ardua impresa. Di filosofia del ilnguaggio più arduo ancora, nei concetti e, peggio, nei gerghi. Un thriller poi si deve poter leggere di corsa. Mentre questo no, si gusta pagina per pagine. Questo non è un thriller. È uno scherzo, sapiente. Filosofico, ma con tutti gli umori e i rumori dell’atto sessuale, di ogni tipo, come vuole l’aggiornamento del vecchio romanzo francese di costumi (Houellbecq, Carrère). Multigender – ma questo è alla Rachilde, già Fine Secolo (fine Ottocento, per intendersi). Smosciante: nelle saune, sui tavolacci da obitorio dell’Achiginnasio a Bologna, tra invalidi a Napoli, chi senza una gamba chi senza una mano, o tra intellettuali ubriachi alla festa dei professori a Ithaca, N.Y., per una botta e via come con le marchette nelle backrooms delle saune. A Ithaca c’è anche la “giovane lesbica ebrea femminista” Judith (Butler), con “l’accento ebreo del Middle-West”. Nonchè la sua co-autrice Gayatri Spivak, in quanto traduttrice di Derrida, teorica della subalternità che si esercita sul tema: “Should the subalterns shut-up sometimes”, i subalterni potrebbero per una volta tacere. Uno spasso per chi è del mestiere e conosce le facce.
Una storia di fatto alla Eco, senza Eco. Che c’è, è da subito “il saggio di Bologna”. E si andrà apposta a trovarlo a Bologna, alla Drogheria Calzolari, per risolvere il mister – Anna Maria Lorusso, che traduce questo Binet, è anch’essa a Bologna, all’univevrsità. L’ultima parola di Barthes morente è stata “echo”, dunque – dice Todorov - Eco. Ma il mistero non si scioglie, s’infittisce – è la semiologia. A Bologna, già che si sono, gli abborracciati inquirenti francesi s’imbattono in tutti quanti. Anche in Prodi, giovane ex ministro dell’Industria. Con Calabrese, Fabbri, e Bifo. E in Antonioni con Monica Vitti. Alla vigilia dell’attentato alla stazione. Siamo infatti nella primavera del 1980. Ma ci sarà anche una gita a Venezia, una a Ithaca, una a Venezia, e una finale a Napoli.
Un poliziotto francese e un cultore della materia indagano sulla morte di Roland Barthes. Che un camioncino della lavanderia ha investito a Parigi mentre attraversava distratto. E l’ospedale ha tenuto in osservazione tre settimane e mezza, senza salvarlo. Accudito da infermiere russe. Investito da un autista slavofono. Reduce da un incontro con Mitterrand, candidato per l’ennesima volta all’Eliseo, più ambiguo che mai. La morte di Barthes scatena  la guerra dei semiologi per l’eredità, per il suo testamento segreto. Il segreto è chi è padrone del linguaggio è padrone del mondo. Ma come arrivarci? Barthes non aveva per le mani quando fu investito una cartellina con un documento? Sicuramente sì.
Di deduzione in deduzione, si arriva al timido Barthes che, col tonitruante Foucault, frequentava le saune. E qui in qualche modo lo ha confidato al suo amasio maghrebino, Hamed, con l’incarico, in caso estremo, di memorizzarlo e distruggerlo. Il ragazzo muore, avvelenato dai bulgari con l’ombrello, mentre ne riversa il dettato a memoria ai due segugi che fanno da filo conduttore alla narrazione, al punto in cui è questione della “settima funzione del linguaggio”. Che mistero si nasconde dietro?
Il punto è un classico anche dei nostri giorni, dopo Poe: il documento rubato. La borsa di Moro, l’agenda rossa di Borsellino, i diari di Falcone. Da fantasticare c’è sempre, nella realtà. Anche perché non importa cosa il documento contiene, ma cosa c’è dietro – la scomparsa, il trafugamento.
La guerra si scatena feroce tra i filosofi, all’ultimo sangue cosa usava dire. Searle contro Derrida, Jakobson contro tutti. Con i bulgari – l’altro mondo – in agguato, Kristeva, Todorov. Si uccidono  non solo, si dissanguano, si sbranano, si squartano. Con esercizi dotti. “Il nome è il tempo dell’oggetto”, finezza di Lacan, lo sbirro Bayard sa declinare in cinque modi diversi – e tralascia una sesta, “il nome è il tempo dell’oggetto”. Con un maglietta D&G che è Deleuze e Guattari. Fino al plurilinguisno: si passa dal francese all’italiano e all’americano senza mai un errore di compitazione, oltre che con linguaggi giusti e non ritradotti. Fino a Ithaca, N.Y., alla Cornell, una interpolazione di un centinaio di pagine che è l’apoteosi dell’insignificanza, semiologica. Con Searle, “illocutorio”, “perlocutorio”, Derrida, “performante”, e ogni altro.
Un’opera leggera sopra un immenso lavoro di scasso. Nonché nell’universo semiologico e linguistico, Binet, classe 1972, si muove nel 1980 senza sbagliare un dettaglio, una canzone, un titolo, una trasmissione tv, un match di tennis, un discorso politico. Contro Sollers, contro Bernard Henri-Lévy. Con molta Italia di quellanno, ricostruita con precisione, linguistica e tematica. Con, tra i tanti punti esatti, una lettura anticipatamente corretta delle lettere di Moro dal carcere Br, al § 47, sia delle lettere politiche che delle lettere ai familiari – anticipatamente sulle recenti celebrazioni per i quaranta anni della morte.
La sinossi la fornisce lo stesso Binet alla fine del lungo capitolo “Ithaca”: Le marchette di Barthes - Hamed non era il solo naturalmente, le saune sono bordelli - eredi del testamento, vogliono venderlo. Searle vuole comprare. Jakobson, in odio a Searle, aiuta Derrida a rincarare l’offerta. Ma Kristeva fa di tutto perché la transazione fallisca. E Derrida ne muore, anche lui – in realtà non muore, questo è un falso, ma Binet è anche contro Derrida. Manca “il flagrante delitto”, ma si sa di che si tratta: del potere nel mondo, figurarsi.
La teoria del linguaggio di Jakobson si ferma a sei funzioni. La settima “sarà una funzione magica, incantatoria?” Eco non lo esclude, il Gran Protagora cui si va a chiedere lumi. Ma la settima resta un mistero – un mistery sarà questo Binet, non un thriller.
L’epilogo è a Napoli, camorra oblige – in realtà Galleria Umberto I-Umberto Eco – con San Gennaro, il Gambrinus e la P 38, possente parabellum SS. Al Logos Club. Di cui è padrino – Gran Protagora – Umberto Eco. A Venezia c’è già stata la sfida impossibile al Gran Protagora Eco, che ha visto i Nostri perdenti: l’odiato sessuomane Sollers ne esce castrato, il giovane ricercatore detective protagonista della lunga historia monco della mano destra - ai perdenti con disonore al dibattito linguistico si infligge una mutilazione.
Un divertissement. E un omaggio a Barthes, scritto per il 1915, centenario della nascita. Che Binet vuole una sorta di vittima: della madre, dell’omosessualità sofferta, del temperamento mite, e dei linguisti. In controluce su un mondo intellettuale aggressivo. Sollers, Henry-Lévi, Althusser, lo stesso egomaniaco Foucault. Così come il mondo politico, dei concorrenti Giscard e Mitterrand pe le presidenziali, con i loro collaboratori poi famosi. Vengono salvati in parte i “bulgari” Kristeva e Todorov, in quanto rifugiati, Deleuze in quanto appassionato di calcio, Sartre prossimo alla fine. Un piacere nel piacere, per chi in qualche modo ne ha sentito i nomi e il peso, seppure non li ha letti o non conosce la storia francese contemporanea.
 “La vita non è un romanzo”, è la morale: “È perlomeno quello che vorreste credere”. Una storia godibilissima, malgrado l’argomentazione irta. Anzi, proprio per questo, una storia unica e per questo appassionante – non fosse per una evitabile prolissità. . :

Laurent Binet, La settima funzione del linguaggio, La Nave di Teseo, pp. 454 € 20

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