“Qui”, a Bruxelles, scrive Baudelaire in
uno dei tanti improperi (“La capitale delle Scimmie”) di cui gratifica la
città, “non ci sono ladri di professione, Ma questa lacuna è largamente compensata
dalla disonestà generale”. La relazione può non essere vera dei Belgi -
Baudelaire era prevenuto. Ma calza,
invertita, nei paesi di mafia: ci sono i mafiosi, violenti, e c’è una mitezza
spaventosa.
La società si stabilizza su poli conflittuali,
non per accumulo: una società mafiosa avrebbe reso la vita impossibile ai
mafiosi. Le mafie possono imperversare solo se e finché inducono rassegnazione –
anche solo una legittima attesa di quieto vivere.
Reggio Calabria, che non ha
(praticamente) aziende attive, se non le poche locali, le tassa al 73,4 per
cento, record nazionale. Pochi, maledetti e subito, come nelle migliori
tradizioni dei senza legge.
Poi si dice che i primati sono tutti
nordici. Dopo Reggio Calabria, saltando Bologna e Firenze, della tradizione tassaiola
comunista, la seguono nella Total Tax Rate (Ttr), per esosità fiscale: Catania,
Bari, Napoli, Salerno, Foggia.
Lo sciopero proclamato negli stabilimenti
Fiat dai Cobas a Pomigliano d’Arco e dalle Usb a Melfi contro l’acquisto di
Cristiano Ronaldo da parte della Juventus non ha avuto nessuna adesione. Nemmeno
una. Anche questo è ben un primato: un sindacato che non rappresenta nessuno
era ancora da inventare.
Si fa business in Calabria nelle
famiglie mafiose anche della letteratura. Ai fratelli Criaco di Africo,
Gioacchino è vedette di Feltrinelli, si aggiungono i fratelli Gallico di Palmi.
Ergastolana la madre, ergastolano il fratello Domenico, Carmelo Gallico,
numerose condanne poi cancellate in Cassazione, è stato premiato al Bancarella.
Con libro di memoria in cui lamenta la triste condizione di nascere a Palmi,
Calabria – editore Anordest.
I mafiosi hanno indubbiamente più energia.
Tanto più nelle società rassegnate, sotto il peso della loro insolenza e violenza.
La
mafia è inefficienza, e pregiudizio
Si può pensare l’inconcludenza delle indagini
per la strage di via D’Amelio una delle tante inefficienze del sistema
repressivo italiano, di inquirenti incapaci. Come piazza Fontana, Brescia,
Bologna, o i tanti morti eccellenti per mano di mafiosi, incluso Piersanti
Mattarella. Invece i figli di Borsellino
vogliono la colpa dello Stato voluta, la strage un disegno criminoso dello
Stato, che poi, con altrettanta perfidia e insomma intelligenza, ha insabbiato
la ricerca della verità. Come già i loro zii, la sorella e il fratello del
giudice assassinato entrati in politica.
Cose siciliane, usa dire. Ma è lo stesso
a Roma. I Casamonica inquisiti e
arrestati per la denuncia di un pentito di mafia non è una ridicolaggine. È il
modo di essere della giustizia, o del suo apparato repressivo, che fa capire
come le mafie propriamente dette siano imbattibili e anzi prosperano.
I Casamonica controllano mafiosamente la
metà orientale di Roma. furti, protezione (pizzo), grassazioni, intimidazioni
(bombe, incendi, spari). Non da oggi, da almeno settanta anni, da quando
scesero nella capitale. E non in segreto: per questo, per essere mafiosi, sono noti
a tutta la città.
Il giudice di Roma Prestipino,
siciliano, anche dopo aver deciso gli arresti, dice che i Casamonica non
esercitano come le mafie il controllo del territorio, e invece lo esercitano,
ogni romano lo sa. Un furto nel loro territorio viene immediatamente
perseguito, sia pure una macchina che sarebbe preferibile rottamare, se si
ricorre a loro. Per accusarli e arrestarli però ci vuole la denuncia di un pentito
calabrese, presunto ‘ndranghetista.
La denuncia. La faccia una vittima di
mafia, deve provarla. Anche se è impossibile – in Italia non è lecito “produrre”
prove, nemmeno a proprio carico, a proprie spese, con indagini indipendenti,
come si vede nei gialli al cinema. Perché? Il denunciante è il primo
sospettato.
Se Mattarella, o la commissione parlamentare
Antimafia, disponessero la pubblicazione delle “note di servizio”, le
informative libere redatte dai comandanti locali dei Carabinieri, si vedrebbero
cumuli di sospetti e accuse nei confronti soprattutto dei denuncianti. Si
presuppone per una sorta di giustizialismo, che chi denuncia è uno che ha, uno
abbiente, anche se ha le pezze al culo – e quindi sospetto, automaticamente. In
realtà perché i Carabinieri, chiamiamo così i pubblici poteri, si informano
presso i Casamonica di turno, i mafiosi di vario tipo, e più o meno dichiarati.
Se Mattarella o la Commissione facesse
obbligo di indicare la fonte delle informazioni, i mafiosi emergerebbero con
certezza fonti primarie, perfino uniche. In cambio di interventi repressivi
blandi: ammonizioni, ammende, arresti brevi, con imputazioni scagionabili. L’imputazione
vera si fa dopo trenta o quaranta anni di controllo del territorio, per dirla
alla Prestipino, quando le vecchie mafie non controllano più la criminalità e non sono quindi
buone fonti. Il patrimonio hanno messo al sicuro, ben riciclato. E gli
arrestati – non necessariamente tutti, ne basta uno, il più importante – si pentono,
concludendo trionfalmente la carriera criminale, con la pensione e la
protezione di Stato - Riina e i Graviano sono eccezioni
Con la storia assurda dell’omertà. Per cui
uno qualsiasi, un passante, un vicino, uno stranottato, deve fare quello che
non fanno gli inquirenti, e non possono fare le vittime: portare le prove. Anzi:
individuare prima il colpevole e poi portare le prove. Uno di cui sarà diffuso
il nome e l’indirizzo non appena si sia formata una vaga idea di un delitto
cui possa avere assistito. Si proteggono gli informatori ma non i testimoni.
Su questa traccia, dello Stato-mafia, bisognerebbe allora andare indietro.
Ai tantissimi casi insoluti di assassinii eccellenti in Sicilia, Borsellino non è il solo. Per esempio a quello di Piersanti Mattarella, il fratello maggiore del presidente della
Repubblica. Il sostituto Procuratore incaricato delle indagini trentasette anni
fa, Pietro Grasso, indagò due terroristi di destra, Cavallini e l’eterno
Fioravanti. Una novità totale per la Sicilia, per Palermo. Come fu possibile?
Chi glieli mise davanti? Perché Grasso puntò su di loro? Quando si “scoprì” che
i terroristi non c’entravano, era troppo tardi per trovare gli assassini
dell’onorevole siciliano, che infatti sono impuniti.
Su questa traccia, non se ne
esce più – troppe decadi di depistaggi, troppi Grandi Vecchi, troppi complotti.
Mentre la ricetta del complotto è di essere unica e univoca, non c’è un
complotto eterno - quello, semmai, a voler entrare nella mentalità complottista, è di chi congiura a “incastrare” la Sicilia e il Sud, nelle maglie di una criminalità invincibile, assurda.
La sentenza di 5 mila pagine sulla
strage di via D’Amelio parla da sé. Di un processo spettacolo, lungo un’eternità, giostrato dal presidente Montalto con spreco di trasferte e
altri trucchi d’effetto. All’inseguimento di Berlusconi – non riuscito, e quindi
si dice che Berlusconi si è sottratto. Con prove ridotte alla dichiarazione di
un pentito, non provata, e dello stesso Riina nelle sue “confidenze” in
carcere - la parte della chilometrica sentenza servita ai giornali: di un Riina
sciocco o rincoglionito che direbbe, dice il giudice, la
verità delle cose - mentre si limita a parlare il suo solito linguaggio,
minaccioso e allusivo.
Il capomafia è uno che si ritiene dio in terra, Trump e Putin, e magari Xi, messi insieme, con la regina Elisabetta. Ma non tanto quanto il giudice.
Il capomafia è uno che si ritiene dio in terra, Trump e Putin, e magari Xi, messi insieme, con la regina Elisabetta. Ma non tanto quanto il giudice.
Il Sud è malato, di giustizia.
Quando
il Nord emigrava al Sud
Ci sono molti Calabrese, Siciliano,
Napolitano al Nord, ma sono post-unitari. Ci sono molti cognomi Lombardo, e toponimi
lombardi, al Sud, in Sicilia e in Calabria, di vecchia data. Del Due-Trecento,
e anche dopo. Di scalpellini e artigiani della pietra inizialmente a Palermo,
in sostituzione delle maestranze arabe, man mano che la capitale e l’isola si
ricristianizzavano. E pi di emigrati per necessità, per sfuggire alle persecuzioni
guelfe inizialmente, in terra ghibellina, e poi per beneficiare di un modo
produttivo (agricolo, commerciale) più vario e ricco di opportunità.
Questi due aspetti, in particolare, sono
stati documentati alcuni ani fa in una mostra virtuale a Pavia, il cui catalogo
(documenti e schede informative) è reperibile online. Dei lombardi dell’oltrepo
pavese emigrati in Sicilia nel Duecento. Dal titolo provocatorio, “I Lombardi a
Corleone”, ma non tanto. Non se ne può inferire che la Corleone del ferocissimo
Riina sia in qualche modo lombarda. Ma che la storia non è divisibile tra buoni
e cattivi, in parte, sì.
La
giustizia dell’odio-di-sé
È indubbio che Dell’Utri non è un
mafioso. È indubbio che è stato condannato perché prossimo di Berlusconi. È
indubbio che è stato condannato su testimonianze false. E allora?
È indubbio che è stato processato e condannato
Dell’Utri in vece di altri mafiosi, che certamente allignano a Palermo e
dintorni. È indubbio che da venticinque anni, dopo Riina, non ci sono più mafiosi
a Palermo, non per i giudici. E dunque?
Questa giustizia è opera di giudici
siciliani, meridionali.
A Milano sarebbe differente? Non lo è,
ma sempre a opera di giudici meridionali anche loro - nella fattispecie a
prevalenza napoletana sulla siciliana.
Si può dire male del Sud, ma non tanto
quanto ne dicono i meridionali stessi. I migliori meridionali – un giudice è il
migliore, per definizione. E ci saranno pure quelli che fanno male al Sud, con
opere oltre che con parole, ma non tanto quanto i meridionali stessi.
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