sabato 21 luglio 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (369)

Giuseppe Leuzzi 

“Qui”, a Bruxelles, scrive Baudelaire in uno dei tanti improperi (“La capitale delle Scimmie”) di cui gratifica la città, “non ci sono ladri di professione, Ma questa lacuna è largamente compensata dalla disonestà generale”. La relazione può non essere vera dei Belgi - Baudelaire era prevenuto.  Ma calza, invertita, nei paesi di mafia: ci sono i mafiosi, violenti, e c’è una mitezza spaventosa.
La società si stabilizza su poli conflittuali, non per accumulo: una società mafiosa avrebbe reso la vita impossibile ai mafiosi. Le mafie possono imperversare solo se e finché inducono rassegnazione – anche solo una legittima attesa di quieto vivere.

Reggio Calabria, che non ha (praticamente) aziende attive, se non le poche locali, le tassa al 73,4 per cento, record nazionale. Pochi, maledetti e subito, come nelle migliori tradizioni dei senza legge.

Poi si dice che i primati sono tutti nordici. Dopo Reggio Calabria, saltando Bologna e Firenze, della tradizione tassaiola comunista, la seguono nella Total Tax Rate (Ttr), per esosità fiscale: Catania, Bari, Napoli, Salerno, Foggia.

Lo sciopero proclamato negli stabilimenti Fiat dai Cobas a Pomigliano d’Arco e dalle Usb a Melfi contro l’acquisto di Cristiano Ronaldo da parte della Juventus non ha avuto nessuna adesione. Nemmeno una. Anche questo è ben un primato: un sindacato che non rappresenta nessuno era ancora da inventare.

Si fa business in Calabria nelle famiglie mafiose anche della letteratura. Ai fratelli Criaco di Africo, Gioacchino è vedette di Feltrinelli, si aggiungono i fratelli Gallico di Palmi. Ergastolana la madre, ergastolano il fratello Domenico, Carmelo Gallico, numerose condanne poi cancellate in Cassazione, è stato premiato al Bancarella. Con libro di memoria in cui lamenta la triste condizione di nascere a Palmi, Calabria – editore Anordest.
I mafiosi hanno indubbiamente più energia. Tanto più nelle società rassegnate, sotto il peso della loro insolenza e violenza. 

La mafia è inefficienza, e pregiudizio
Si può pensare l’inconcludenza delle indagini per la strage di via D’Amelio una delle tante inefficienze del sistema repressivo italiano, di inquirenti incapaci. Come piazza Fontana, Brescia, Bologna, o i tanti morti eccellenti per mano di mafiosi, incluso Piersanti Mattarella. Invece i figli di  Borsellino vogliono la colpa dello Stato voluta, la strage un disegno criminoso dello Stato, che poi, con altrettanta perfidia e insomma intelligenza, ha insabbiato la ricerca della verità. Come già i loro zii, la sorella e il fratello del giudice assassinato entrati in politica.
Cose siciliane, usa dire. Ma è lo stesso a Roma.  I Casamonica inquisiti e arrestati per la denuncia di un pentito di mafia non è una ridicolaggine. È il modo di essere della giustizia, o del suo apparato repressivo, che fa capire come le mafie propriamente dette siano imbattibili e anzi prosperano.
I Casamonica controllano mafiosamente la metà orientale di Roma. furti, protezione (pizzo), grassazioni, intimidazioni (bombe, incendi, spari). Non da oggi, da almeno settanta anni, da quando scesero nella capitale. E non in segreto: per questo, per essere mafiosi, sono noti a tutta la città.
Il giudice di Roma Prestipino, siciliano, anche dopo aver deciso gli arresti, dice che i Casamonica non esercitano come le mafie il controllo del territorio, e invece lo esercitano, ogni romano lo sa. Un furto nel loro territorio viene immediatamente perseguito, sia pure una macchina che sarebbe preferibile rottamare, se si ricorre a loro. Per accusarli e arrestarli però ci vuole la denuncia di un pentito calabrese, presunto ‘ndranghetista.   
La denuncia. La faccia una vittima di mafia, deve provarla. Anche se è impossibile – in Italia non è lecito “produrre” prove, nemmeno a proprio carico, a proprie spese, con indagini indipendenti, come si vede nei gialli al cinema. Perché? Il denunciante è il primo sospettato.
Se Mattarella, o la commissione parlamentare Antimafia, disponessero la pubblicazione delle “note di servizio”, le informative libere redatte dai comandanti locali dei Carabinieri, si vedrebbero cumuli di sospetti e accuse nei confronti soprattutto dei denuncianti. Si presuppone per una sorta di giustizialismo, che chi denuncia è uno che ha, uno abbiente, anche se ha le pezze al culo – e quindi sospetto, automaticamente. In realtà perché i Carabinieri, chiamiamo così i pubblici poteri, si informano presso i Casamonica di turno, i mafiosi di vario tipo, e più o meno dichiarati.
Se Mattarella o la Commissione facesse obbligo di indicare la fonte delle informazioni, i mafiosi emergerebbero con certezza fonti primarie, perfino uniche. In cambio di interventi repressivi blandi: ammonizioni, ammende, arresti brevi, con imputazioni scagionabili. L’imputazione vera si fa dopo trenta o quaranta anni di controllo del territorio, per dirla alla Prestipino, quando le vecchie mafie non controllano più la criminalità e non sono quindi buone fonti. Il patrimonio hanno messo al sicuro, ben riciclato. E gli arrestati – non necessariamente tutti, ne basta uno, il più importante – si pentono, concludendo trionfalmente la carriera criminale, con la pensione e la protezione di Stato - Riina e i Graviano sono eccezioni
Con la storia assurda dell’omertà. Per cui uno qualsiasi, un passante, un vicino, uno stranottato, deve fare quello che non fanno gli inquirenti, e non possono fare le vittime: portare le prove. Anzi: individuare prima il colpevole e poi portare le prove. Uno di cui sarà diffuso il nome e l’indirizzo non appena si sia formata una vaga idea di un delitto cui possa avere assistito. Si proteggono gli informatori ma non i testimoni.
Su questa traccia, dello Stato-mafia, bisognerebbe allora andare indietro. Ai tantissimi casi insoluti di assassinii eccellenti in Sicilia, Borsellino non è il solo. Per esempio a quello di Piersanti Mattarella, il fratello maggiore del presidente della Repubblica. Il sostituto Procuratore incaricato delle indagini trentasette anni fa, Pietro Grasso, indagò due terroristi di destra, Cavallini e l’eterno Fioravanti. Una novità totale per la Sicilia, per Palermo. Come fu possibile? Chi glieli mise davanti? Perché Grasso puntò su di loro? Quando si “scoprì” che i terroristi non c’entravano, era troppo tardi per trovare gli assassini dell’onorevole siciliano, che infatti sono impuniti.
Su questa traccia, non se ne esce più – troppe decadi di depistaggi, troppi Grandi Vecchi, troppi complotti. Mentre la ricetta del complotto è di essere unica e univoca, non c’è un complotto eterno - quello, semmai, a voler entrare nella mentalità complottista, è di chi congiura a “incastrare” la Sicilia e il Sud, nelle maglie di una criminalità invincibile, assurda.
La sentenza di 5 mila pagine sulla strage di via D’Amelio parla da sé. Di un processo spettacolo, lungo un’eternità, giostrato dal presidente Montalto con spreco di trasferte e altri trucchi d’effetto. All’inseguimento di Berlusconi – non riuscito, e quindi si dice che Berlusconi si è sottratto. Con prove ridotte alla dichiarazione di un pentito, non provata, e dello stesso Riina nelle sue “confidenze” in carcere - la parte della chilometrica sentenza servita ai giornali: di un Riina sciocco o rincoglionito che direbbe, dice il giudice, la verità delle cose - mentre si limita a parlare il suo solito linguaggio, minaccioso e allusivo. 
Il capomafia è uno che si ritiene dio in terra, Trump e Putin, e magari Xi, messi insieme, con la regina Elisabetta. Ma non tanto quanto il giudice.
Il Sud è malato, di giustizia.

Quando il Nord emigrava al Sud
Ci sono molti Calabrese, Siciliano, Napolitano al Nord, ma sono post-unitari. Ci sono molti cognomi Lombardo, e toponimi lombardi, al Sud, in Sicilia e in Calabria, di vecchia data. Del Due-Trecento, e anche dopo. Di scalpellini e artigiani della pietra inizialmente a Palermo, in sostituzione delle maestranze arabe, man mano che la capitale e l’isola si ricristianizzavano. E pi di emigrati per necessità, per sfuggire alle persecuzioni guelfe inizialmente, in terra ghibellina, e poi per beneficiare di un modo produttivo (agricolo, commerciale) più vario e ricco di opportunità.
Questi due aspetti, in particolare, sono stati documentati alcuni ani fa in una mostra virtuale a Pavia, il cui catalogo (documenti e schede informative) è reperibile online. Dei lombardi dell’oltrepo pavese emigrati in Sicilia nel Duecento. Dal titolo provocatorio, “I Lombardi a Corleone”, ma non tanto. Non se ne può inferire che la Corleone del ferocissimo Riina sia in qualche modo lombarda. Ma che la storia non è divisibile tra buoni e cattivi, in parte, sì.
 
La giustizia dell’odio-di-sé
È indubbio che Dell’Utri non è un mafioso. È indubbio che è stato condannato perché prossimo di Berlusconi. È indubbio che è stato condannato su testimonianze false. E allora?
È indubbio che è stato processato e condannato Dell’Utri in vece di altri mafiosi, che certamente allignano a Palermo e dintorni. È indubbio che da venticinque anni, dopo Riina, non ci sono più mafiosi a Palermo, non per i giudici. E dunque?
Questa giustizia è opera di giudici siciliani, meridionali.
A Milano sarebbe differente? Non lo è, ma sempre a opera di giudici meridionali anche loro - nella fattispecie a prevalenza napoletana sulla siciliana.
Si può dire male del Sud, ma non tanto quanto ne dicono i meridionali stessi. I migliori meridionali – un giudice è il migliore, per definizione. E ci saranno pure quelli che fanno male al Sud, con opere oltre che con parole, ma non tanto quanto i meridionali stessi.

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