Un gran reportage. Prevenuto,
perché Baudelaire non ha avuto a Bruxelles l’accoglienza che sperava, gli
editori che avevano fatto ricco Victor Hugo, le sale di conferenze paganti
piene, gli onori, uno spirit vivace. Ma dopo un lavoro da Grande Inviato,
curioso e scrupoloso, lungo due anni, gli ultimi della sua vita – come annota
subito Montesano, che ha curato il revival: “Il dandy si aggira per i balli
public durante il Carnevale, va ad assistere a meeting repubblicani, osserva le
case private, curiosa nelle botteghe,
legge gli annunci pubblicitari, le scritte sui muri, colleziona statuti di
associazioni, osserva i giochi dei bambini, nota le abitudini delle donne,
copia i manifesti elettorali e le partecipazioni funebri, registra gli errori
di pronuncia e di stile come segni dell’errore morale”. Diligente, ma subito
incattivito.
Un strano libro dunque, di
invettive. Con poche, brevi, “cose”. La ballerina “Amina”, Elisa Neri, e poco
più. “Le plat pays” di Jacques Brel è
antevisto con furore. Anticipato dal giovane Voltaire in esilio nel 1722 – “La
triste città dove ho stanza\ è il soggiorno del’ignoranze,\ dlla noia, delal
pesantezza,\ della stupida indifferenza…” – ma questo non esime. Né si può dire
che Baudelaire abbia cattivo carattere. Ma era già mortalmente sofferente, anche
se non lo sapeva, e tornava alle insofferenza della prima età, con la
caratteristica mancanza di misura.
È anche indispettito: il suo
non-conformismo non stupisce nessuno a Bruxelles. E questa è forse una chiave
utile: c’è già la mancanza di curiosità che caratterizza i nostri giorni in
Italia, forse per lo stesso motivo, per il potere “alla piccola borghesia”, direbbe
Baudelaire, “che è micragnosa e solo vigila sul suo piccolo interesse”.
Più cattivo ancora Baudelaire
è nelle lettere da Bruxelles, alla madre, al tutore Ancelle, all’editore, a
Sainte-Beuve. Che Montesano documenta nella lunga introduzione. Insieme col
consiglio di leggere i versi ancora più irrispettosi dedicati a Bruxelles, le “Amoenitates
Belgicae” - che però meno di questa silloge si recuperano.
“La capitale delle Scimmie” è
uno dei moltissimi titoli che Baudelaire registra nelle note qui raccolte. Che
Montesano ha preferito ai titoli meno immaginativi adottati dai curatori delle
due edizioni “critiche “di questi appunti lasciati sparsi e informi, Pichois e
Guyaux. Anche il montaggio Montesano ha fatto diverso, in qualche modo tematico
e non cronologico.
Montesano fa di questo
Baudelaire un progressista, e anzi un rivoluzionario, al passo di Marx, che sta
scrivendo “Il Capitale”, lo stesso che Flaubert, che sta scrivendo “Bouvarad e
Pécuchet”, e un socialista proudhoniano, ma è arrischiato. Baudelaire ce l’ha
col modo di vivere che Pound dirà dei “dollaria”, tutto calcolo e poco spirito.
Ma da high tory, gran signore gran
liberale, e per questo tanto più sprezzante. Contro Napoleone III e la demagogia
al potere. Contro il potere del denaro, esaustivo, corruttivo. Contro i colonialismi.
Specie del jingoismo, sarebbe da
aggiungere, la ferocia piccolo-borghese – a Bruxelles “solo i cani sono vivi,
sono i negri del Belgio”. Del
resto da ragazzo, allievo dei gesuiti, era stato ben rivoluzionario. Fino al
1848, all’utopia rediviva dell’Ottantanove, fondatore e redattore, con
Champfleury e Toubin, di “Le Salut public”, giornale rivoluzionario, in cui
invitava i preti alla rivolta, in testa l’arcivescovo di Parigi Affre e lo scrittore sacerdote Lacordaire.
Charles Baudelaire, La capitale delle scimmie, Oscar, pp. 157 € 6,90
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