La raccolta si compone di tre
gruppi di canti: “satirici e morali”, di critica della chiesa; d’amore; bacchici
e conviviali. Alcuni di autore,
Gualtiero di Châtillon soprattutto, forse anche Abelardo, che ne resta comunque
ispiratore, l’Archipoeta di Colonia, Pietro di Blois, Filippo il Cancelliere, e altri. In un quadro
di gioventù vagabonda, clerici vagantes, in
cerca di istruzione. Di vocazione o condizione religiosa. Di area franco-tedesca,
con qualche apporto inglese (anglo-normanno) – e forse italiano, la questione è
discussa. Sono componimenti in latino, eccetto un gruppo di 56, in medio-alto
tedesco. Di un’epoca, tardo Duecento-primo Trecento, che conclude i movimenti
riformisti e millenaristici seguiti all’anno Mille. Mentre si creano ovunque università,
la scuola diventa istituzione, centro, aperto ai più. Di cui c’è già la critica
e la satira: “Florebat olim stadium,\ nunc vertitur in tedium”, dello studio in
rima con tedio.
Opera di spiriti liberi, e più
forse perché di posizioni condivise ampiamente, comunque non contestate – nessuno
sostiene che non ci sia la simonia del clero. Benché in qualche modo soggetti
alla disciplina clericale. Si critica la chiesa “in linea con la riforma
gregoriana”, dice il curatore, ma di fatto liberamente. Gli autori ne sono
membri, si tratta pur sempre di “chierici”, anche se con pochi obblighi
ecclesiastici – ma con tutti i benefici, di giustizia e fisco separati,
soprattutto, e liberi perfino di
sposarsi, nonché evidentemente di ubriacarsi. Liberi fino a sfiorare la
bestemmia – il §44 è “Initium sancti evangelii secundum marcas argenti”, il
titolo latino del vangelo di Marco adattato all’avidità di denaro (argento). Ripetutamente
si attaccano con virulenza la curia di Roma e il papa.
La datazione più probabile
riporta la raccolta alla terza decade del Duecento. A opera di monaci tirolesi.
Che raccolgono canti di un secolo prima. Testimonianza di una fioritura morale,
oltre che letteraria, diffusa. Non trasgressiva per quello che se ne lascia
intendere, della lascivia o dello scandalo. I “Carmina” d’amore lo sublimano
rispettosi al modo dei trovatori provenzali, solo senza madonne e sena corti.
Non senza stereotipi, bisogna avvertire, specie in questa seconda parte che si
vorrebbe trasgressiva ed è invece convenzionale, di pastorellerie e fuochi che
(si) consumano. Il poema d’amore più famoso, il § 79, lungo ben 79 strofe, 316
versi, è una più che noiosa arte d’amare, su chi la fa meglio, se il chierico o
il cavaliere. Molti riferimenti, da Ovidio eccetera, sono disanimati,
scolastici.
L’interesse di oggi è che
sono testi non esoterici né alla macchia per l’epoca. Che anzi ne riprende temi
e strutture in altri contesti, perfino confessionali. I curatori trovano la
struttura metrica del canto goliardico
più famoso, il 196, “Quando siamo
all’osteria non c’importa del mondo”, ripresa qualche anno dopo, nel 1265, da
san Tonmmaso d’Aquino nella sequenza “Laus
Sion” per il Corpus Domini.
Una larga scelta, cento
canti, poco meno della metà della collezione integrale. In originale, e in traduzione.
Introdotta e commentate ampiamente da Piervittorio Rossi. Che purtroppo deve
sacrificare il proprio dei “Carmina”, la cantabilità. Di senari-settenari semplici
e doppi, da esametro classico, con rime baciate o comunque ravvicinate, da
canzonetta. Con notevole applicazione inventiva di tecnica poetica, anafore
ingegnose e altri accorgimenti. La traduzione può darne solo il senso, e in
minima parte il cachinno dietro l’invettiva, o la gioia
Carmina burana, Bompiani, pp. LIX-327 €12
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