giovedì 19 luglio 2018

Canti di libertà nel Medio Evo

Canti popolari ma in realtà colti. Con ampie riprese, parafrasi, citazioni, formule, e moduli, riferimenti, rifacimenti da Ovidio, tanti, e da Orazio, Giovenale, Marziale, una volta da Cicerone. Canti di libertà, in pieno Medio Evo - di opposizione, si direbbero oggi, contro i papi e i preti, simoniaci e concubini. Che il vagabondaggio arriva già a vantare come fonte di esperienza. Di mano di altri religiosi, anche se di ordini minori, “chierici”. E opera mainstream e non marginale, non minoritaria: al contrario diffusa e condivisa. Un altro Medio Evo
La raccolta si compone di tre gruppi di canti: “satirici e morali”, di critica della chiesa; d’amore; bacchici e conviviali. Alcuni  di autore, Gualtiero di Châtillon soprattutto, forse anche Abelardo, che ne resta comunque ispiratore, l’Archipoeta di Colonia,  Pietro di Blois,  Filippo il Cancelliere, e altri. In un quadro di gioventù vagabonda, clerici vagantes, in cerca di istruzione. Di vocazione o condizione religiosa. Di area franco-tedesca, con qualche apporto inglese (anglo-normanno) – e forse italiano, la questione è discussa. Sono componimenti in latino, eccetto un gruppo di 56, in medio-alto tedesco. Di un’epoca, tardo Duecento-primo Trecento, che conclude i movimenti riformisti e millenaristici seguiti all’anno Mille. Mentre si creano ovunque università, la scuola diventa istituzione, centro, aperto ai più. Di cui c’è già la critica e  la satira: “Florebat olim stadium,\ nunc vertitur in tedium”, dello studio in rima con tedio.
Opera di spiriti liberi, e più forse perché di posizioni condivise ampiamente, comunque non contestate – nessuno sostiene che non ci sia la simonia del clero. Benché in qualche modo soggetti alla disciplina clericale. Si critica la chiesa “in linea con la riforma gregoriana”, dice il curatore, ma di fatto liberamente. Gli autori ne sono membri, si tratta pur sempre di “chierici”, anche se con pochi obblighi ecclesiastici – ma con tutti i benefici, di giustizia e fisco separati, soprattutto, e liberi  perfino di sposarsi, nonché evidentemente di ubriacarsi. Liberi fino a sfiorare la bestemmia – il §44 è “Initium sancti evangelii secundum marcas argenti”, il titolo latino del vangelo di Marco adattato all’avidità di denaro (argento). Ripetutamente si attaccano con virulenza la curia di Roma e il papa.
La datazione più probabile riporta la raccolta alla terza decade del Duecento. A opera di monaci tirolesi. Che raccolgono canti di un secolo prima. Testimonianza di una fioritura morale, oltre che letteraria, diffusa. Non trasgressiva per quello che se ne lascia intendere, della lascivia o dello scandalo. I “Carmina” d’amore lo sublimano rispettosi al modo dei trovatori provenzali, solo senza madonne e sena corti. Non senza stereotipi, bisogna avvertire, specie in questa seconda parte che si vorrebbe trasgressiva ed è invece convenzionale, di pastorellerie e fuochi che (si) consumano. Il poema d’amore più famoso, il § 79, lungo ben 79 strofe, 316 versi, è una più che noiosa arte d’amare, su chi la fa meglio, se il chierico o il cavaliere. Molti riferimenti, da Ovidio eccetera, sono disanimati, scolastici.
L’interesse di oggi è che sono testi non esoterici né alla macchia per l’epoca. Che anzi ne riprende temi e strutture in altri contesti, perfino confessionali. I curatori trovano la struttura metrica  del canto goliardico più famoso, il  196, “Quando siamo all’osteria non c’importa del mondo”, ripresa qualche anno dopo, nel 1265, da san Tonmmaso d’Aquino nella sequenza “Laus  Sion” per il Corpus Domini.
 Ma tutta la lettura ne è stata travisata. In chiave romantica, nel tardo Ottocento, che li riscoperse e li editò. Mentre sono un testo di rara “modernità”. I “Carmina” rispecchiano anche un’insorgenza democratica – analoga a quella coeva dei trovatori  nel Sud della Francia, che però pur sempre muovevano in ambito cortese, cioè patrizio : il monopolio della cultura non è più della nobiltà. Le strade che un tempo solo i pellegrini animavano e collegavano, ora sono animate dai giovani, tra una università o un insegnamento e l’altro – e Pavia con le sue torri fa aggio, più che Parigi (che mai si nomina). Con la riscoperta dei classici, il loro libero uso.  
Una larga scelta, cento canti, poco meno della metà della collezione integrale. In originale, e in traduzione. Introdotta e commentate ampiamente da Piervittorio Rossi. Che purtroppo deve sacrificare il proprio dei “Carmina”, la cantabilità. Di senari-settenari semplici e doppi, da esametro classico, con rime baciate o comunque ravvicinate, da canzonetta. Con notevole applicazione inventiva di tecnica poetica, anafore ingegnose e altri accorgimenti. La traduzione può darne solo il senso, e in minima parte il cachinno dietro l’invettiva, o la gioia 
Carmina burana, Bompiani, pp. LIX-327 €12


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