Castaneda
– Il guru delle droghe di mezzo secolo fa,
sulla traccia della scomparsa civiltà tolteca, oggi dimenticato ma che a lungo
spopolò con i suoi libri di antropologia messicana, era peruviano. Personaggio
di cui si fantasticò molto, che non voleva apparire, e fu anche ritenuto
“inventato”, dai suoi editori, dopo il successo di vendite a sorpresa della sua
prima ricerca. Un grosso volume, “Castaneda Papers”, s’ingegnò di smontarlo,
riducendolo appunto a un solo libro, quello
delle prime ricerche sulle proprietà e gli usi delle sostanze allucinogene
nel Sud del Messico, che poi i suoi editori avrebbero replicato per il grande successo del primo.
Ma l’uomo esisteva, e scriveva. Fellini lo ha incontrato, e ne parla a lungo in
“Imago”, dopo avere tentato invano di ricavare dai suoi racconti un film. Lo
ricorda con acredine, per le difficoltà che trovò in questa impresa, compreso
un lungo viaggio tra Stati Uniti e Messico che fu una serie disavventure: “Si
sono verificati fenomeni strani e prodigi piccoli e grandi”, ricorda: “Sono
passati diversi anni dal 1986 e ancora non sono riuscito a farmi bene un’idea
di cosa sia davvero accaduto. Forse Castaneda si era pentito di avermi fatto andare
sin lì e aveva architettato tutta una serie di fenomeni che mi scoraggiassero”.
L’uomo però esisteva: “Io Castaneda l’ho
conosciuto, era seduto là… E a Roma era venuto prima ancora che io lo
conoscessi e volessi fare un film su di lui”. Presentato da una signora romana:
“Avevo perso anni cercando di prendere contatto con l’editore e l’agente
letterario, poi con lo stesso Castaneda”. A Roma avevano discusso su cosa Fellini
voleva fare dei suoi racconti: “Quando Castaneda è venuto a trovarmi a Roma, in
questo studio”, gli spiegò, sintetizza la sua intervistatrice, “che la matrice
degli organi non si trova nel corpo fisico ma nella sua energia astrale, o corpo
etereo, e che dunque, in qualche modo, pulsa a pochi centimetri dall’organo
stesso”. Insegnandogli “alcuni esercizi per stimolare e guarire i diversi
organi (fegato, cuore eccetera)”. Che Fellini provò, senza alcun effetto, di
nessun genere.
Può darsi che quello di Fellini non fosse il
vero “Castaneda”, ma un furbo profittatore? O che non fosse un antropologo ma
un mago? Fellini per qualche tempo gli credette – fino al 1986, come dice.
Quando abbandonò l’uomo e il progetto che aveva concepito sui suoi racconti.
Irritato dagli “eventi misteriosi” a New York e in Messico che ritenne progettati
e eseguiti da Castaneda o dai suoi affiliati o scherani.
Incipit
– “Robinson” lo celebra con Belpoliti: “La prima
frase è quella che conta. Lì c’è racchiuso tutto, quello che sarà e quello che
non sarà”. Illustrandolo con gli incipit dei cinque candidati finalisti al
premio Strega. Che non dicono nulla.
Italiano
- Un altro Gramsci ci
vorrebbe, l’italiano è ora ostaggio, dopo Manzoni,
dei siciliani, benché amabili, Verga, Pirandello, Tomasi, lo stesso Sciascia,
retori del pathos, l’onore, la famiglia, i destini dolenti, che nell’isola
stonano, altezzosa com’è, crudele, immaginifica. Senza, però, riemerge lo
snobbino epidermico, entomologo da circolo Pickwick a Montreux, il retino in
mano, per farfalle di cui non sa che farsene. Immemore e distratto.
Jünger - Una “curiosità
da entomologo”, la stessa di Jünger, di Nabokov, rivendica anche Fellini, per una poetica
del tutto opposta a quella jüngeriana: estroversa, colorata, espressionista.
Manzoni - Stupefacente è come Manzoni riesca a
infiacchire un
catalogo spaventoso, di mafia, stupro, aborto, anche in convento, sciacalli
nella peste, corruzione della giustizia e della religione, morte, idiozia,
putredine, non c’è altro romanzo gotico, nero, che accumuli tanta turpitudine,
tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e Dio pretende
che lo ascolti e lo aiuti.
Questo è indubbio, il Miglior Lombardo ha
affossato l’italiano. Che da esperto propose dopo l’unità politica,
poffarbacco, l’unità della lingua “in tutti gli ordini di popolo”. Con maestri
toscani nelle scuole, viaggi delle scuole in Toscana, e in tutte le scuole un
vocabolario del “fiorentino vivo”. Dopo aver “risciacquato in Arno” “Fermo e Lucia”, che già era scritto in toscano,
col “fiorentino vivo”. Ora, farsi
fiorentini non è una colpa, specie se colti. Ma che ne era del resto
dell’Italia, gli potevano obiettare Isaia Ascoli e ogni altro, giù fino a
Croce?
Manzoni
vedeva l’Italia come la Francia e l’impero romano, attorno a una corte e a una
città, e questo, bene o male che sia, in Italia non avviene. Fu ottimo storico,
ma non della lingua, che infettò d’insulsaggini, perdindirindina, senza colpo
ferire, due piccioni prendendo a una fava, di conserva col ministro Brolio come
il vino, ai glottologi dando la baia, che menavano il can per l’aia, di buzzo
buono, tra il lusco e il brusco, fino a lasciarli con le pive nel sacco, se non
che c’è un limite a tutto, e quel che viene di ruffa in raffa se ne va di buffa
in baffa.
Semiologia – Dan
Brown, dopo Laurent Binet, “La settiima funzione del linguaggio”, e dopo il suo
stesso “Codice da Vinci”, ripropone in “Origin” lo scienziato pazzo, avveniristico
e di potere, come semiologo. La semiologia è dunque la chiave per i milioni di
copie, dopo il “Codice da Vinci” - o dopo Eco, “Il nome della rosa”.
Seneca – È
Seneca che ha dato alla poesia inglese la chiave del suo fascino, attesta Praz,
e li ha resi maestri del dialogo, “insegnando loro la brillante tecnica della
sticomitia e delle battute brevi”. Ma non per sé: moralista, l’azione fa
incidentale, le persone, le cose, la storia stessa, in un mondo senza libertà e
senza avventura – prevedibile, alla Manzoni.
Vigna – Era povera al tempo di
Jefferson, fine Ottocento, Il futuro presidente americano, il terzo, 1800, fa
un periplo delle aree vinicole francesi, Champagne, Borgogna, Beaujolais, nella
primavera del 1787, e ne resta desolato: “Quelli che coltivano la vite sono sempre
poveri”.
Voce – Negletta, a favore della vista, ha molte proprietà anche
taumaturgiche. Quella della “stanza accanto”, per esempio, in Vernon Lee. Theodor
Fontane l’orgasmo estendeva alla voce. In “Cécile”
fa intrattenere a un vecchio duca e all’infermo nipote una ragazza povera e di
poche maniere perché parla e legge con appropriata inflessione di voce. L’ugola
può dare acuto godimento. Nel “Conte Petöfy”, altro romanzo di Fontane, un
vecchio conte sposa un’attrice giovane per il piacere di ascoltarne la voce impostata
e arguta.
Anche
Stendhal godeva nell’orecchio, soprattutto ascoltando la signora Barilli
cantare: “Voi che sapete\ che cos’è amore”, dal “Figaro” di Mozart. Era sua convinzione
che nella musica “il piacere fisico, che proviamo attraverso il senso
dell’udito, è più potente e vicino alla sua vera essenza che non il godimento
d’ordine intellettuale”.
letterautore@antiit.eu
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