lunedì 9 luglio 2018

L'ultimo harakiri, l'asfissia dell'università


Partono più italiani per l’estero ogni anno di quanti immigrati entrano in Italia. E partono laureati, portandosi dietro investimenti pubblici di miliardi per la formazione, mentre arrivano manovali, al meglio, e braccianti – ma i più sono ambulanti dei falsi, e del racket dell’elemosina. Federico Fubini e il “Corriere della sera” finalmente se ne accorgono, anche se il fenomeno è macroscopico e ben visibile da sempre, ma ancora con qualche trascuratezza – anche se non è l’ultimo degli harakiri che si impongono all’Italia, e nemmeno in favore di grandi o potenti interessi.
Molto, se non esclusivamente, si fa il caso dei “ricercatori” italiani finiti all’estero. Anche se sono, come è ovvio, una infima parte, attorno all’1 per cento, dei 60 mila italiani che ogni anno emigrano, in Germania, Inghilterra, Francia e altrove. I famosi cervelli italiani all’estero. Ma: meglio chi parte o meglio chi resta? Compreso il giovane professore a Pretoria, Sud Africa, che ora fa il vice-ministro dell’Istruzione.  Si fanno paginate e forum strappalacrime sui giovani costretti a emigrare, con carriere folgoranti all’estero, dal familismo e la corruzione dell’università in Italia. Il “giovane ricercatore all’estero” è da troppi anni un brand molto celebrato, troppo, dal giornalismo facile. Mentre la verità è, nove casi su dieci, l’opposto: emigra chi non ce la fa in Italia. Solo in rari casi vittima di pratiche illecite. Mentre è anche vero che ha facile accettazione e rapida carriera fuori perché la locale università o centro di ricerca non è – non è ritenuta – una grande carriera. E comunque non è in grado di formare ricercatori. Non come le seconde scelte italiane. Se non si dice tutto questo, si opera in realtà per un declassamento della università italiana, per un abbattimento di ciò che ne resta  
Questo sarebbe poi necessario spiegare: che l’Italia sforna ancora ricercatori di medio livello europeo e occidentale, buoni in qualsiasi campo e in qualsiasi ambiente, malgrado l’università, dove il ricercatore si forma, sia abbandonata e anzi vessata da tempo. Dai governi di sinistra dapprima, di D’Alema e Amato, e poi dai governi di Berlusconi,volenterose esecutrici Moratti e Gelmini. L’università pubblica. In favore degli esamifici, il business dell’università privata, cresciuta da fine Novecento a ritmi esponenziali – istituti si direbbe altrove delinquenziali, bruciando i risparmi delle famiglie per lauree di nessuna consistenza.
Niente più investimenti nell’università vera, quella pubblica, quella che forma e alimenta la ricerca. Da venti anni ormai, dall’ultimo dei Berlinguer infausti: l’Italia, pur formando ancora i migliori ricercatori, spende il minimo, fra tutti i paesi Ocse, per la formazione universitaria. Niente turnover - ormai siamo a un professore stabilizzato ogni 200 iscritti. Finanziamenti ogni ano più ridotti, e burocraticamente attorti. Con la bufala degli autofinanziamenti, come se la piccola economia italiana fosse il bengodi degli investimenti privati in ricerca.
Una eutanasia non tanto mascherata a favore dei (piccoli) interessi del business formazione? Una dei tanti instupidimenti introdotto con la ubriacatura del mercato? Bisogna da destra, da liberali, liberare la sinistra dei tanti paraocchi dietro cui si nasconde, per cattiva coscienza. 

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