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Quando la poesia si nascondeva nel cuscino
“La minima appendice del
sesto senso\ o l’occhio parietale della lucertola,\ i monasteri di lumache e
conchiglie,\ il parlottio di piccole ciglia scintillanti.\ L’inaccessibile,
com’è vicino!” Nel linguaggio scientifico, lui direbbe naturalistico,
Mandel’štam è sempre preciso e affascinante. “Forse il sussurro nacque prima
delle labbra,\ e senza alberi mulinavano le foglie,\ e coloro ai quali consacriamo l’esperienza\ prima dell’esperienza avevano già i tratti”. Non si
può non condividerne la sintonia. Ma, perdendosi in traduzione la rima, che è tutto
dell’ottava, queste brevi composizioni, di due strofe di quattro versi, si
gustano più per il paratesto, di Serena Vitale, che introduce, traduce, e
annota estensivamente. Con l’ausilio delle estese esaurenti letture\interpretazioni\localizzazioni
operate da Nadešda Mandel’stam nei tre lavori di recupero e sistemazione da
lei dedicati alla memoria del marito, vittima di Stalin - specie delle
simbologie, spesso arcane e invece semplici (“tessuto”, “tessitura”, “vela”, “colore”…)
Una breve silloge, di undici componimenti, di due quartine. “Quasi leggera morte”, il
titolo, è un emistichio che Vitale trae da un’ottava. Ma opportunamente: questa edizioncina Mandel’štam mise a punto, col lavorio incessante
che gli era caratteristico, nei primi anni 1930, della disgrazia politica,
prima della sanzione definitiva, con la morte presunta in campo di
concentramento nel 1938 - dove le morti non si registravano: nell’Unione
Sovietica si spariva e basta. Quattro di esse scritte alla macchia e nascoste
in un cuscino, come ricorda Nadešda Jakovlevna: “Nel
primo periodo della nostra vita a Voronež”, già confinati, “Osip Emil’evič e
io ricostruimmo a memoria i versi degli anni 1931-34. Nell’estate del ’35 portai da Mosca le minute
superstiti e gli «album» che custodivamo nei cuscini. I letti li avevano rivoltati
da cima a fondo ma i cuscini, chissà perché, non li avevamo toccati, anche se
sono il classico nascondiglio degli oggetti di valore – non a caso durante i
pogrom antiebraici li svuotano”. Un promemoria anche di un mondo impensabile,
che pure è esistito, in Europa, fino a ieri, che mandava i poeti in manicomio o
a morte in contumacia.
Ma non è la denuncia politica
l’intento di questo omaggio. Nella ricostruzione appassionata delle brevi
composizioni, compresa la travagliata storia del loro recupero, Serena Vitale
fa un ritratto ben sbalzato di Mandel’štam, poeta che a torto si trascura. Del
suo essere-non-essere, di come e dove nacque e si alimentò la sua scrittura
prosastica (e anche poetica), del “Viaggio in Armenia”, di “Conversazione su
Dante”, minutamente precisa e viva,
“scientifica”, e del contesto letterario in cui operava, di amici, neutrali
(Pasternak) e denunciatori.
L’ottava, il metro,
Mandel’štam considerava “una poesia fallita”. Ma ci si applicò, ci teneva. Per
ribadire le due o tre cose per lui essenziali, che dice anche nella coeva
“Conversazione su Dante”. Della poesia come tessitura. Come coloritura. Come
tessitura variopinta. E come navigazione a vela, con cognizione precisa dei
venti, degli aliti di vento. Con echi del pensiero di Bergson, nota Vitale, il cui corso al Collège de France Mandel’štam aveva seguito nel 1907. Per una
poetica, si potrebbe dire, del dissolvimento.
Nei suoi “desideri
sproporzionati”, come dicevano gli amici, e “quasi matterie”, nota Vitale,
Mandel’štam pretende che il poeta è, sia, anche il suo lettore. O meglio un
direttore d’orchestra, che la sua poesia presenta come uno spartito musicale
dei sensi, aperto a ogni ricezione. Avendo prima fatto giustizia della
sintassi. Mandel’štam non amava lo “stato in luogo”, nota Vitale, l’ablativo, e
lo infastidiva la “buddistica quiete ginnasiale del caso nominativo”. Più in
generale argomentando contro la sintassi: “È la sintassi a confonderci. Bisogna
sostituire tutti i nominativi con dativi, che indichino una direzione. Questa è
la legge della materia poetica, mutabile e sempre mutante, che vive solo nello
slancio esecutivo”. L’arte legando intimamente alla natura. Nella sintesi di
Vitale, “l’arte non imita, non riproduce, la natura; con lei, in un gioioso
rapporto sororale, gioca, scambiandosi in continuazione vesti, sembianze. La
metafora ritorna metamorfosi (non A che somiglia a B, ma A che diventa B) e
l’ingegno spinge «a narrare di forme cambiate in corpi stranieri»”.
C’è molto, curiosamente, Santa Sofia, di cui ora Erdogan ha fatto una
moschea, il tempio della cristianità orientale che però Mandel’stam non aveva
mai visitato – un’ottava dedicata corre tutta d’un d’un soffio, in un solo periodo.
E l’amico Belyi in morte, per sua fortuna (?) di un colpo di sole.
Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte, Adelphi, pp. 91 €
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