domenica 22 luglio 2018

Quando l'Italia aveva una patrona

I motivi d’interesse sono meglio dati nel risvolto - di Salvatore S. Nigro? Che si rifà all’elogio di Tommaseo, il primo curatore delle lettere della santa: “Donna di consolazione e di lacrime, fanciulla ed eroe, Clorinda ed Erminia del poema che sopra l’Italia compose Dio” – l’iperbole non guasta. E al compaesano Federico Tozzi, che la “piamente severa” Caterina dice, come al tempo usava, “unificatrice morale dell’Italia”, e “l’espressione più alta, a cui può tendere una nazione intera, per avere la coscienza di sé medesima”. Dimenticata, a torto - come un po’ tutta la storia.
Uno dei primi volumetti della collana “Italia”, ideata da Sciascia nel 1989 – trent’anni fa ancora si poteva. Cui si devono i primi ripescaggi, Giulio Camillo, Magalotti, Monti, Savarese, e questa Caterina. Impreziosita graficamente da Enzo Sellerio.
La santa che animò il secondo Trecento lo fece di persona in tutta Italia, e fino ad Avignone. Ma più lo fece scrivendo. Benché avesse “poca dimestichezza con la penna”, dice la curatrice Sara Cabibbo: la patrona d’Italia, che papa Paolo VI ha voluto “dottore della chiesa”, non sapeva scrivere. Ma non per ignoranza, spiega Cabibbo: al modo di Ildegarda di Bingen, e poi della santa Brigida svedese o di Teresa del Gesù, animatrici di una comunità di fedeli. In legame simbolico con san Paolo, da grande conoscitrice delle Scritture, che anche lui soleva dettare le sue lettere. Ma non è il solo motivo di interesse. Anzi, il vero interesse è per la scrittura, benché non di suo pugno: i concetti non sono molto originali, le presentazioni sì, irruenti, argomentate, sintetiche, sorprendenti.
Caterina Benincasa ebbe al fianco schiere di fedelissimi, nobili o letterati, che ne costituirono una sorta di segreteria al seguito, anche nei viaggi. Che la chiamavano “mamma”, e ai quali dettava missive, orazioni, discorsi “al dolce suo sposo”, anche tre contemporaneamente. Una sorta di Grande Famiglia itinerante, al seguito di una “mamma” febbrile. Con la missione di salvare il papato e la chiesa, riuscita col ritorno di Gregorio XI da Avignone a Roma. E, con meno fortuna, l’Italia dalle guerre, specie dall’invasione che i Turchi minacciavano risalendo l’Adriatico.   

“Io, serva e schiava” è solo una prima parte della diminutio, che recita “serva e schiava dei servi di Gesù Cristo”. La santa domina con l’iperbole. Insistita, eccessiva, e tuttavia accattivante. Non ha progetti né proposte e tanto meno intrighi da imporre o difendere, se non, in queste lettere, il ritorno del papa a Roma, e la crociata contro i Turchi, ma trascina. Il suo modo è il superlativo, di ogni tema piccolo o grande che affronta, la sua arma l’entusiasmo. Anche sui temi ordinari, della moralità corrente: “L’amore non si acquista se non con l’amore”, “il morto non può sotterrare il morto, colui che è morto a Grazia non ha né ardire né vigore di sotterrare il morto del difetto del prossimo suo”.     
Un personaggio fantastico, con il metro di oggi, se non fosse esistito. Figlia di un tintore, del quartiere artigiano di Siena, Fontebranda, e di una Lapa di Puccio di Piagente, che “quasi ogni anno partoriva un figlio o una figlia e che spesso concepì gemelli o gemelle (Raimondo di Capua, “Legenda maior” – il domenicano Raimondo fu uno dei corrispondenti), ventiquattresima di venticinque figli, sopravvissuta alla gemella per essere stata allattata dalla madre. Una predestinata, le agiografie sono univoche, ma una che si meritò la fama immediate, e poi la beatificazione..
Mantellata domenicana a diciassette anni, e per questo oggetto in morte di una “Legenda maior” e una “Minor”, più un “Supplementum”  dei domenicani a fini promozionali, ma personaggio storico di tutto rispetto, in vita ancora più che in morte. In questa scelta corrisponde con ogni sorta d’interlocutore, rispettosa ma senza remore, assennata e convincente: papi, regine (d’Ungheria, di Napoli), condottieri, cardinali, badesse. 
Caterina da Siena, Io, serva e schiava, Sellerio, remainders, pp. 174 € 2,58.

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