Roth
ha qui raccolto una ventina di elzeviri da terza pagina, del decennio successivo
alla guerra. Sul nulla: il negozio di coloniali, il secondo (e terzo) amore, le
cimici appunto, i ritrovamenti coi compagni di scuola, malinconici, e così via.
Con l’aggiunta di una rivisitazione del villaggio dell’infanzia, pubblicata
poco prima della fine, stroncato dalla solitudine e dall’alcol. In una prosa
serrata, ritmica, veloce – forse esito della traduzione, di Gabriella de’
Grandi.
C’è
anche qui il ricordo dell’imperatore. All’uscita dallo Schönbrunn, al mattino,
tra la folla che gli fa ala rispettosa, che si è alzata di bun’ora e ha fatto
il viaggio da Vienna apposta, per salutarlo all’uscita, “il piccolo
cerimoniale austriaco di un’ora mattutina a Schönbrunn”. Di un impero
domestico.
Si
fa molta ideologia, e quasi scandalo, del rimpianto di Joseph Roth per il vecchio ordine k.u.k., ma la ragione è semplice: era l’impero di “un imperatore
privato”: “Una maestà umana. Si allontanava dagli affari di governo, se ne
andava in vacanza l’imperatore. Qualsiasi ciabattino poteva immaginarsi di aver concesso la vacanza a Sua Maestà”.
La
nostalgia è di un mondo integro. Unito cioè e non in armi, diviso, conteso. Di
cui lo scrittore ebreo è personalmente singolare testimonianza, nella
familiarità col mondo dell’impero cristiano. Di cui tutto fa suo, anche i riti,
i santi, le devozioni. Si rimpiange il vecchio impero,la Mitteleuropa, come di
un amalgama irripetibile di popoli e di culture. Ma di esse la più
sorprendente, più di quella linguistica o delle nazionalità, è la religiosa.
Leggere Joseph Roth oggi, che il viso dell’arme di prammatica, quasi un dovere,
specie dell’ebraismo nei confronti del cristianesimo, è la sorpresa maggiore.
Joseph
Roth, Il secondo amore, Adelphi, pp.
124 € 11
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