giovedì 9 agosto 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (371)

Giuseppe Leuzzi


Salvini dimette per mafia il sindaco di Siderno Pietro Fuda, settantacinquenne in politica da mezzo secolo, un Dc che è stato Forza Italia e poi, con Agazio Loiero, il fondatore del partito Democratico Meridionale, senatore, presidente della provincia di Reggio C., sindaco al suo paese da tre anni con una maggioranza di sinistra, senza addebiti specifici. Ma forse la politica non c’entra. Fuda ha citato in giudizio per danno erariale la gestione commissariale, cioè prefettizia di Siderno precedente la sua elezione. La Prefettura lo ha “sciolto” per mafia. Che sicuramente c’è, ma dove? 

Il ministro dell’Interno è stato eletto senatore in terra di mafia. Con i voti dei fedelissimi di Scopelliti, l’ex presidente della Regione Calabria finito in carcere per avere truccato i bilanci di Reggio quando era sindaco. Uno che era stato eletto a sua volta con i voti di Berlusconi, ma ora con Berlusconi è in rotta. E dunque?
Però Salvini – è il ministro dell’Interno, yes – ha sbancato la Calabria, ottimo. Da solo. Ci voleva un lombardo.

C’è lo Stato dietro la mafia, lo Stato dietro il terrorismo, lo Stato dietro le stragi, lo Stato dietro la crisi, interminabile. Forse non è una battuta dire che il problema del Sud è l’Italia.

Quando il Sud era il Nord
“Quando la sponda ricca del Mediterraneo era quella meridionale”, spiega Amedeo Feniello, lo storico medievista, su “La Lettura”. Operosa, ingegnosa, imperialista. È un fatto, nella storia, per più secoli. Il Sud non è stato un problema fino all’unità. Il Regno borbonico del Sud era criticato dai liberali a Londra, ma anche i Savoia erano maneschi coi giovani italiani, e gli austriaci.
Il titolo di Feniello però è riferito al rapporto col mondo arabo: “Intorno all’anno Mille i viaggiatori musulmani descrivevano l’Europa come una contrada di genti povere, sporche, incivili. Mentre il Nord Africa, oggi ribollente di tensioni e ostilità, era ricco d’ingegni, arte e cultura”. C’è da temere?
La ricchezza in realtà si crea. Con l’applicazione. Essendo però padroni del proprio destino.  Il Sud non può liberarsi dell’Italia e nemmeno gli converrebbe. Ma liberarsi della cappa mafiosa sì, dovrebbe. Anche contro l’Italia.

Mater semper certa
Carlo Macrì racconta al “Corriere della sera” una favola a Cosenza a lieto dine: ¨Io laureata con mia figlia, affetta da sindrome di down”, in Comunicazione e Dams, discutendo la tesi lo stesso giorno.
Poiché il giornale, per acume promozionale, vuole pagata la lettura in archivio, ve ne sintetizziamo la storia. Loredana Ambrosio, che a Cosenza è funzionaria in Confartigianato, ha seguito la figlia Francesca Pecora in tutti gli studi (“mai avuto bisogno dell’insegnante di sostegno), fino alla laurea. Condividendo gli interessi della figlia, fino alla passione per il teatro, la danza, il cinema, al punto da rifare l’università insieme con lei, fino alla laurea: “Lo studio per lei è stato una sicurezza”.
Poi si dice il familismo. Quello dei brutti, sporchi e cattivi sarebbe brutto lo stesso, come ogni cosa che loro toccano.

…et non
 “La scrittrice, nata a Reggio Calabria nel 1978 ma romana d’adozione…”, “Corriere della sera”, 6 agosto. La scrittrice si è fatta esorcizzare? O è pregiudizio redazionale?

Martedì Filippo Tortu, figlio di Salvino, oro sicuro nei 100 m. agli Europei di Berlino, è “l’atleta milanese” e “il Pie’ Veloce brianzolo”. Mercoledì lo stesso Tortu, svogliato quinto, è “di Tempio Pausania”.

Vanno molto le origini, che combinate con l’antropologia che si vuole applicata al Sud fanno stato di una sorta di mafia congenita. L’origine della camorra Pasquale Villari, lo storico napoletano maestro di Salvemini, unitarista convinto e anzi entusiasta, poneva nelle “Lettere meridionali”, la seconda serie, del 1876 (la prima è del 1862, di lettere pubblicata sulla “Perseveranza”, giornale di Milano…) poneva nell’unità, per come si era conclusa. Villari riporta  l’origine della camorra all’abolizione del feudalesimo e all’unificazione. In questo caso nell’uso spregiudicato dei camorristi come gestori dell’ordine e del commercio da parte di Liborio Romano, il ministro borbonico dell’Interno passato con Garibaldi, e dei nuovi amministratori. E nell’abbandono a se stessa della plebe da parte dello stato unitario. Specie con la manomissione della manomorta, i beni che si lasciavano in  eredità agli enti ecclesiastici perché provvedessero agli indigenti.

Machionne era abruzzese, è emigrato con i genitori quando aveva quattordici anni. È l’unico punto della biografia che non si rileva – una biografia ricca, molto, ma non molto variata, fissabile in tre-quattro punti. Se fosse nato e cresciuto, e avesse fatto le medie, poniamo, in Lombardia, non lo avremmo saputo? Tutti i suoi compagni di classe. Tutti i suoi vicini, i parenti.

L’odio-di-sé musicale
Ancora nella passata legislatura, presidente della Camera Laura Boldrini, l’orchestra di fiati dei ragazzi di Laureana di Borrello, 6-20 anni, era stata invitata a partecipare a un concerto nella Sala della Regina. L’invito poi decadde, si disse, su informative dei Carabinieri che riscontravano parentele di qualcuno dei ragazzi con gente “in odore di ‘ndrangheta”.
Successivamente l’accusa decadde e il concerto, si disse, era stato annullato per l’indisponibilità della sala. Che pensarne? Che sicuramente qualcuno dei ragazzi era imparentato con gente in odore di ‘ndrangheta, nei paesi è così. Se le gente “in odore” venisse perseguita e condannata, o assolta, la ‘ndrangheta non sarebbe così inesorabilmente contagiosa.
Qualche mese dopo, nei dibattiti estivi, una tre giorni 19-21 luglio di “Gente in Aspromonte” organizzata dalla giunta Dem della Regione Calabria a Africo vecchio, la storia è ripresa da Mimmo Gangemi: i Carabinieri “in due diversi riscontri” esaminano “le parentele di ogni singolo componente della banda” e trovano “l’odore di ‘ndrangheta”. Ma la giornalista Mediaset Valentina Loiero, figlia di Agazio, giornalista e presidente della Regione Calabria: “Sicuramente è arrivata quella informativa, è chiaro che è arrivata. Ma non qualcuno, erano tutti, tutti. Io ti farei dire cosa mi disse il prefetto di Reggio”. Tutti, tutti.
Una banda – non musicale - di teen-ager: vogliamo battere le paranze di Saviano? Fare musica non è la stessa cosa che sparare, ma si vede che la ‘ndrangheta nel suo monopolismo si è data ora agli ottoni.   
Il prefetto di Reggio, che ha già a Ferragosto il record annuale di scioglimenti di consigli comunali per mafia, è lo stesso denunciato da Fuda per danno erariale – forse non era lo stesso del danno presunto, i prefetti cambiano, ma la prefettura è immutabile.

Il pranzo di Pasquale
Bruno De Stefano ha fatto un grosso lavoro, raccogliendo le biografie minuziose, una ventina di fitte pagine l’uno, di 23 boss, di camorra, prevalentemente, mafia, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita, “I boss che hanno cambiato la storia della malavita”. Cambiato no, ma certo non c’è limite al peggio. “Da Raffaele Cutolo a Totò Riina, le storie di tutti i criminali che hanno tenuto sotto scacco l’Italia”, continua il sottotitolo. Questo è vero, da ogni punto di vista, che i criminali hanno tenuto sotto scacco l’Italia.
Di uno di essi, Pasquale Galasso, un ricordo personale ricorre, raccontato in questa rubrica
il 13 dicembre 2015
Sulla spiaggia di Roccella Jonica, in un lido chiamato “Dal naso al cielo”, letterario (è titolo di Pirandello), all’ora di pranzo, su una duna incombente un signore pasteggiava solo, massiccio visto dal basso. Corretto in camicia, scuro di pelle ma non abbronzato. Che a tratti emetteva suoni rauchi forti, duri. Sembrava non guardasse nessuno, ma a ognuna delle sue ejaculazioni un movimento inquieto si produceva a una tavolo in basso, un tavolino non apparecchiato, da bar. Dove quattro donne era come se ne accusassero ricezione: ogni volta si agitavano in conciliabolo, poi l’una o l’altra si alzava, il viso tirato, e scompariva, riappariva, scompariva di nuovo. Poi tornava. A ogni urlo lo stesso sommovimento, come una reazione nervosa. Quattro donne in bikini, nerissime di tintarella, non parenti, chissà perché davano netta questa impressione, non più giovani ma ben tenute, anche se si muovevano lente, e quasi piegate, con la borsa attaccata alla spalla. Di cui non si seppe che pensare, in assenza di spiegazioni dell’imperturbato gestore di “Dal naso al cielo”, o come si chiamava il lido.
L’uomo, che sembrava conosciuto, poi si rivelerà sui giornali Pasquale Galasso. Le donne dunque le poliziotte di scorta, che lo assistevano durante il pasto. Piegate dalle armi che portavano nei borsoni. Quattro della vicina caserma di un reparto speciale antimafia di Polizia, aperto in un grande edificio nei pressi della spiaggia. Un reparto che serviva anche, evidentemente, ai poliziotti e alle poliziotte per farsi un po’ di mare nel tempo libero. Questo nel 1997, o 1996. Pasquale Galasso si era pentito, ma ancora non si sapeva.
Di un altro capo camorrista censito da De Stefano, Carmine Alfieri, quello  molto devoto, con angoli in casa dedicati a  immaginette di madonne e santi, si diceva in Romania che fosse un frequent flyer, un viaggiatore  frequente tra i due paesi. Lo dicevano i giovani accompagnatori in occasione di un’intervista importante con l’allora presidente Iliescu, che per candidare la Romania alla Ue cercava il sostegno dell’Italia - e lo ebbe. Erano giovani dei servizi segreti: lui non faceva mistero del suo ruolo, lei era giovane, bella, poliglotta, “figlia di diplomatico”, come occorreva a tutti i giornalisti che lavoravano al di là della cortina di ferro, solo da poco demolita. Era la primavera del 1993.
Alfieri De Stefano rappresenta come “’O ‘ntufato, cioè l’arrabbiato”, con un’espressione sempre torva. “Taciturno, riflessivo, affidabile”, è quello che portò alla malavita Galasso, in carcere e poi fuori. Galasso era di buona famiglia, figlio di un ricco concessionario di automobili, studente di medicina, uno che aveva a disposizione una Porsche, e una Ferrari 380 GTS. In Porsche, racconta De Stefano, fu soggetto a un tentato rapimento, mentre viaggiava con la sorella Consiglia. Tornavano da un notte fuori con gli amici. Pasquale aveva vent’anni. Dapprima pensa che i tre figuri armati vogliano la macchina, poi capisce che è un rapimento di persona. D’improvviso si attacca a uno dei tre, gli prende la pistola, si mette a sparare a caso. Due dei tre muoiono, il terzo riesce a scappare. È l’inizio della fine. Il padre lo fa difendere da Giuliano Vassalli e Vincenzo Siniscalschi, i migliori su piazza, ma i dieci mesi di carcere preventivo lo macchiano per sempre, tra Cutolo, gli Alfieri, i Moccia, gli Zaza e altri camorristi.

leuzzi@antiit.eu

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