Ingmar Bergman - “È stato un teologo agnostico: il suo insegnamento per immagini ha affrontato con decisione le domande ultime sul senso della vita, della morte, del sapere, dell’amore e della solitudine” – card. Gianfranco Ravasi, “Il Sole 24 Ore Domenica” 5 agosto. Nel “Settimo Sigillo”, titolo dell’Apocalisse, e altrove: “Bergman si è confrontato con le verità estreme che la superficialità dei nostri giorni tenta di narcotizzare. E lo ha fatto di film in film, lasciandosi talora sorprendere dalle teofanie di luce, altre volte e più spesso precipitando nello sconforto di una sconfitta perché l’Oltre e l’Altro si rivelavano troppo resistenti al suo approccio”.
Facebook – O dell’insensibilità? “La Rete non è la nuova agorà; è un formidabile strumento di manipolazione della realtà, di sdoganamento dell’ignoranza, di distruzione di competenze, di rinfocolamento della frustrazione”, Aldo Cazzullo, “Corriere delal sera” 3 agosto. ¿Verdad ?
Era il parere già di Virginie
Despentes, “Vernon Subutex”, un romanzo costruito sul branchage, sul collegamento costante, alla p. 129 dell’edizione
Livre de Poche: “Internet è lo strumento della delazione anonima, del fumo
senza fuoco, e della voce che corre senza che si sappia da dove viene”.
Gestualità – “Macron, Trump, perfino i
reali inglesi: la gestualità è diventata il sostegno universale a un linguaggio
povero”, Denise Pardo, “L’Espresso”. Vero, a un linguaggio impoverito. Ma è un
sostegno povero, nei casi citati e negli altri che si vedono: la gestualità è
un linguaggio ricco, Totò non è lì per caso. Un’epoca povera di linguaggi.
Latino - La chiesa cattolica lo ha
abolito nei riti quotidiani e nella preghiera. Ma lo ha mantenuto negli atti
ufficiali e in molti riti particolari. L’effetto è però il contrario di quello
previsto dal Concilio Vaticano II cinquant’anni fa. L’abolizione del linguaggio
comune nella pratica religiosa quotidiana ha portato a chiese diverse, per
ritualità e anche teologia, in Africa, in America Latina, in Asia, anche in
Nord America, diverse che in Europa. Mentre il latino dei e le funzioni
speciali, a due generazioni dal Vaticano II, risulta ostico ai più nella chiesa,
anche alle gerarchie.
Un’altra lingua comune peraltro è sempre
più adottata per le funzioni di governo, i sinodi, le comunità ecclesiali: l’inglese.
Machiavelli – È stato frequentato in Russia
molto prima di Lenin, da Puškin. E prima di Puškin da Karamzin. Ma anche da Tolstòj, prima di
Dostoevskij, come ci si aspetterebbe, e forse da Gogol’. È la “scoperta” dello
slavista Marco Caratozzolo, “Lo sguardo russo sul ‘Principe’ di Machiavelli”, (“Quaderni
di storia”, 81, gennaio-giugno 2015). Dopo essere stato comunicato ai russi in
forma critica nel secondo Cinquecento dai gesuiti, specie dal Possevino, il gesuita
che, in qualità di diplomatico pontificio, viaggiò anche in Russia.
Puškin possedeva l’opera completa di
Machiavelli, in francese, l’edizione in dodici volumi pubblicata a Parigi tra
il 1823 e il 1825. Possevino lo ricorda lui stesso nella terza delle tre
annotazioni su Machiavelli ritrovate nel diario edito come “Table-talks”: “Il
gesuita Possevino, così noto nella nostra storia, fu uno dei più zelanti
detrattori del retaggio di Machiavelli. Egli riunì in un solo libro tutte le
calunnie e gli attacchi che l’immortale fiorentino aveva attirato sulle proprie
opere, e con esse arrestò la nuova edizione di queste. Lo studioso Contingio,
che editò ‘Il Principe’ nel 1660, mostrò che Possevino non aveva mai letto
Machiavelli, ma lo interpretava per sentito dire”. Queste informazioni Puškin
traeva dall’introduzione all’edizione francese del 1825, di J.V.Périès.
Le altre due annotazioni di Puškin sono
sul “divide et impera: “Divide et impera
è una regola di Stato, non solo machiavelliana (prendo questa parola nel suo
senso più comune)”. E di psicologia sociale: “L’uomo per sua natura è più
incline condannare che a lodare (dice Machiavelli, questo grande conoscitore
della natura umana)”.
Possevino aveva molto lavorato contro la
Riforma in Svezia e in Est Europa, in Polonia, Rutenia, Russia. In Russia si
era fatto ascoltare da Ivan il Terribile, sensibile al suo progetto di crociata
contro i turchi. Di Machiavelli si era occupato in “Iudicium”, un’opera del
1592, posteriore quindi alla morte dello zar Ivan, contro il diritto pubblico
nascente – Machiavelli, Bodin e altri.
Machiavelli in realtà non era stato
tradotto in russo al tempo di Possevino. Alcuni passi del “Principe” furono
pubblicati in russo in rivista nel 1813, con il titolo “Appello agli italiani”.
La traduzione integrale del “Principe” si ebbe nel 1817. Rifatta nel 1869,
insieme con i “Discorsi intorno ai primi tre (sic!) libri di Tito Livio”. E poi
ancora nel 1910. Le “Istorie fiorentine” saranno tradotte solo nel 1950. “Belfagor”
invece, la novella, era stata tradotta nel 1824, e poi più volte ristampata e
ritradotta.
Ma più in generale, nota Caratozzolo,
Machiavelli non era fatto per piacere all’autocrazia russa - cui l’intellighencija si rifaceva. Che
evidentemente ne avvertiva la finalità libertaria sotto l’apparente celebrazione
dell’autocrazia stessa: Machiavelli era uno spauracchio politico per la corte e
i feudatari. Le cose cambiarono nell’Ottocento, nota Caratozzolo: “La
conoscenza di Machiavelli, più che un disonore, diventò un obbligo per gli intellettuali”.
I decabristi, i primi insorti per la libertà, nel 1825, ebbero presente, nelle
loro discussioni e congiure, “il ricordo di Machiavelli”, nota Franco Venturi.
Nikolaj Karamzin, scrittore e storico di
molto peso (autore della prima “Storia dello Stato russo”), delle generazione
precedente Puškin, fa di Machiavelli, nella prefazione alla “Storia” che lo
renderà celebre, la pietra di paragone dei doveri dello storico: “Nemmeno il
profondissimo pensiero di Machiavelli può sostituire nello Storico il suo
talento nella rappresentazione di un evento”.
Caratozzolo ipotizza che Gogol’ abbia
compulsato una edizione originale delle “Istorie fiorentine”, pubblicata a
Riga, mentre stava preparando le lezioni sulla storia italiana all’epoca di
Dante, nel 1834, da docente all’univevrsità di Pietroburgo. Tolstòj invece
possedeva la traduzione del “Principe” del 1869, con i “Discorsi” intorno a Tito
Livio. Nei materiali per “Guerra e pace” fa parlare Andrej Bolkonskij con
interesse della teoria del “Principe”. Teoria da cui era “molto affascinato”,
dice Caratozzolo, “anche se non mancò di criticarne sottilmente l’opera”. In
particolare in uno scritto tardo, del 1905, “«Una sola cosa è necessaria».
Intorno al potere statale”, a proposito dei renitenti alla guerra in Estremo
Oriente, al punto da morire o impazzire. Impazziscono, argomenta, traditi dal
potere, che per l’uomo russo, radicato nella schiavitù, non può essere che violento,
intollerante. Per dimostrarlo, cita Machiavelli, “un uomo che sa in cosa
consiste il potere di governo, come lo si deve acquistare e sostenere”. Di
alcuni passi del “Principe”, tratti da diversi capitoli, citando una sintesi personale
nella parte quarta dello scritto.
Machiavelli era però già nella storia culturale
russa. Ma dal lato sbagliato, accomunato ai gesuiti, cioè al rifiuto. Da parte
della intellettualità moderna e liberale. Per questo criticato e rifiutato da
Dostoevskij, in particolare. E da Bakunin. Che in un lettera del luglio 1870, a
Alfred Tallandier, scrive di Nečaev, il dissidente russo teorico del terrorismo
e probabile terrorista: “È arrivato gradualmente a convincersi che per fondare
una società seria e indistruttibile bisognava prendere per base la politica di
Machiavelli e adottare pienamente il sistema dei gesuiti: per corpo la
violenza, per anima la menzogna”.
Rom – “Gli intellettuali di sinistra adorano i Rom, perché li vedono
soffrire molto senza mai sentirli
parlare” – Virginie Despentes, “Vernon Subutex”. Come i cani e i
gatti? .
Roma – Senza latino, non ha alcuna ragione di
essere la sede della chiesa cattolica. Robert Harris lo fa dire a un cardinale conservatore,
nel suo thriller sul “Conclave”, ma non
contestato: “L’abbandono del latino porterà da ultimo all’abbandono di Roma”, a
cinquant’anni dal Consiglio Vaticano II molti se lo chiedono già, e “presto se
lo chiederanno apertamente. Non c’è una regola nella dottrina o nella Scritture
per cui il papa debba risiedere a Roma”.
Velo – “Non contente di occuparsi di tutto
nella case senza mai lamentarsi, sentono ancora il bisogno di portare il velo
per esibire la loro sottomissione. È guerra psicologica, questo è: è fatto
perché il maschio francese senta come è svalutato”, “Vernon Subutex”. L’autrice,
Virginie Despentes, lo fa pensare a un buon cattolico fallito nell’arte del
cinema, ma è un discorso in linea col suo femminismo – col femminismo esibito nel
racconto contestatore. Abbastanza realistico: il velo delle donne mussulmane è
una scelta. Per marcare la differenza. Per marcare una superiorità, la “scelta”
della sottomissione. Che di fatto non c’è, né in casa né nel diritto
matrimoniale – la donna mussulmana, la donna araba in specie, non è sottomessa
(lo stesso ripudio non è indolore).
letterautore@antiit.eu
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