venerdì 10 agosto 2018

Letture - 354

letterautore


Ingmar Bergman - “È stato un teologo agnostico: il suo insegnamento per immagini ha affrontato con decisione le domande ultime sul senso della vita, della morte, del sapere, dell’amore e della solitudine” – card. Gianfranco Ravasi, “Il Sole 24 Ore Domenica” 5 agosto. Nel “Settimo Sigillo”, titolo dell’Apocalisse, e altrove: “Bergman si è confrontato con le verità estreme che la superficialità dei nostri giorni tenta di narcotizzare. E lo ha fatto di film in film, lasciandosi talora sorprendere dalle teofanie di luce, altre volte e più spesso precipitando nello sconforto di una sconfitta perché l’Oltre e l’Altro si rivelavano troppo resistenti al suo approccio”. 



Facebook – O dell’insensibilità? “La Rete non è la nuova agorà; è un formidabile strumento di manipolazione della realtà, di sdoganamento dell’ignoranza, di distruzione di competenze, di rinfocolamento della frustrazione”, Aldo Cazzullo, “Corriere delal sera” 3 agosto. ¿Verdad ?

Era il parere già di Virginie Despentes, “Vernon Subutex”, un romanzo costruito sul branchage, sul collegamento costante, alla p. 129 dell’edizione Livre de Poche: “Internet è lo strumento della delazione anonima, del fumo senza fuoco, e della voce che corre senza che si sappia da dove viene”.

Gestualità – “Macron, Trump, perfino i reali inglesi: la gestualità è diventata il sostegno universale a un linguaggio povero”, Denise Pardo, “L’Espresso”. Vero, a un linguaggio impoverito. Ma è un sostegno povero, nei casi citati e negli altri che si vedono: la gestualità è un linguaggio ricco, Totò non è lì per caso. Un’epoca povera di linguaggi.

Latino - La chiesa cattolica lo ha abolito nei riti quotidiani e nella preghiera. Ma lo ha mantenuto negli atti ufficiali e in molti riti particolari. L’effetto è però il contrario di quello previsto dal Concilio Vaticano II cinquant’anni fa. L’abolizione del linguaggio comune nella pratica religiosa quotidiana ha portato a chiese diverse, per ritualità e anche teologia, in Africa, in America Latina, in Asia, anche in Nord America, diverse che in Europa. Mentre il latino dei e le funzioni speciali, a due generazioni dal Vaticano II, risulta ostico ai più nella chiesa, anche alle gerarchie.
Un’altra lingua comune peraltro è sempre più adottata per le funzioni di governo, i sinodi, le comunità ecclesiali: l’inglese.

Machiavelli – È stato frequentato in Russia molto prima di Lenin, da Puškin. E prima di Puškin da  Karamzin. Ma anche da Tolstòj, prima di Dostoevskij, come ci si aspetterebbe, e forse da Gogol’. È la “scoperta” dello slavista Marco Caratozzolo, “Lo sguardo russo sul ‘Principe’ di Machiavelli”, (“Quaderni di storia”, 81, gennaio-giugno 2015). Dopo essere stato comunicato ai russi in forma critica nel secondo Cinquecento dai gesuiti, specie dal Possevino, il gesuita che, in qualità di diplomatico pontificio, viaggiò anche in Russia.
Puškin possedeva l’opera completa di Machiavelli, in francese, l’edizione in dodici volumi pubblicata a Parigi tra il 1823 e il 1825. Possevino lo ricorda lui stesso nella terza delle tre annotazioni su Machiavelli ritrovate nel diario edito come “Table-talks”: “Il gesuita Possevino, così noto nella nostra storia, fu uno dei più zelanti detrattori del retaggio di Machiavelli. Egli riunì in un solo libro tutte le calunnie e gli attacchi che l’immortale fiorentino aveva attirato sulle proprie opere, e con esse arrestò la nuova edizione di queste. Lo studioso Contingio, che editò ‘Il Principe’ nel 1660, mostrò che Possevino non aveva mai letto Machiavelli, ma lo interpretava per sentito dire”. Queste informazioni Puškin traeva dall’introduzione all’edizione francese del 1825, di J.V.Périès.
Le altre due annotazioni di Puškin sono sul “divide et impera: “Divide et impera è una regola di Stato, non solo machiavelliana (prendo questa parola nel suo senso più comune)”. E di psicologia sociale: “L’uomo per sua natura è più incline condannare che a lodare (dice Machiavelli, questo grande conoscitore della natura umana)”.
Possevino aveva molto lavorato contro la Riforma in Svezia e in Est Europa, in Polonia, Rutenia, Russia. In Russia si era fatto ascoltare da Ivan il Terribile, sensibile al suo progetto di crociata contro i turchi. Di Machiavelli si era occupato in “Iudicium”, un’opera del 1592, posteriore quindi alla morte dello zar Ivan, contro il diritto pubblico nascente – Machiavelli, Bodin e altri.
Machiavelli in realtà non era stato tradotto in russo al tempo di Possevino. Alcuni passi del “Principe” furono pubblicati in russo in rivista nel 1813, con il titolo “Appello agli italiani”. La traduzione integrale del “Principe” si ebbe nel 1817. Rifatta nel 1869, insieme con i “Discorsi intorno ai primi tre (sic!) libri di Tito Livio”. E poi ancora nel 1910. Le “Istorie fiorentine” saranno tradotte solo nel 1950. “Belfagor” invece, la novella, era stata tradotta nel 1824, e poi più volte ristampata e ritradotta.
Ma più in generale, nota Caratozzolo, Machiavelli non era fatto per piacere all’autocrazia russa - cui l’intellighencija si rifaceva. Che evidentemente ne avvertiva la finalità libertaria sotto l’apparente celebrazione dell’autocrazia stessa: Machiavelli era uno spauracchio politico per la corte e i feudatari. Le cose cambiarono nell’Ottocento, nota Caratozzolo: “La conoscenza di Machiavelli, più che un disonore, diventò un obbligo per gli intellettuali”. I decabristi, i primi insorti per la libertà, nel 1825, ebbero presente, nelle loro discussioni e congiure, “il ricordo di Machiavelli”, nota Franco Venturi.
Nikolaj Karamzin, scrittore e storico di molto peso (autore della prima “Storia dello Stato russo”), delle generazione precedente Puškin, fa di Machiavelli, nella prefazione alla “Storia” che lo renderà celebre, la pietra di paragone dei doveri dello storico: “Nemmeno il profondissimo pensiero di Machiavelli può sostituire nello Storico il suo talento nella rappresentazione di un evento”.
Caratozzolo ipotizza che Gogol’ abbia compulsato una edizione originale delle “Istorie fiorentine”, pubblicata a Riga, mentre stava preparando le lezioni sulla storia italiana all’epoca di Dante, nel 1834, da docente all’univevrsità di Pietroburgo. Tolstòj invece possedeva la traduzione del “Principe” del 1869, con i “Discorsi” intorno a Tito Livio. Nei materiali per “Guerra e pace” fa parlare Andrej Bolkonskij con interesse della teoria del “Principe”. Teoria da cui era “molto affascinato”, dice Caratozzolo, “anche se non mancò di criticarne sottilmente l’opera”. In particolare in uno scritto tardo, del 1905, “«Una sola cosa è necessaria». Intorno al potere statale”, a proposito dei renitenti alla guerra in Estremo Oriente, al punto da morire o impazzire. Impazziscono, argomenta, traditi dal potere, che per l’uomo russo, radicato nella schiavitù, non può essere che violento, intollerante. Per dimostrarlo, cita Machiavelli, “un uomo che sa in cosa consiste il potere di governo, come lo si deve acquistare e sostenere”. Di alcuni passi del “Principe”, tratti da diversi capitoli, citando una sintesi personale nella parte quarta dello scritto.  
Machiavelli era però già nella storia culturale russa. Ma dal lato sbagliato, accomunato ai gesuiti, cioè al rifiuto. Da parte della intellettualità moderna e liberale. Per questo criticato e rifiutato da Dostoevskij, in particolare. E da Bakunin. Che in un lettera del luglio 1870, a Alfred Tallandier, scrive di Nečaev, il dissidente russo teorico del terrorismo e probabile terrorista: “È arrivato gradualmente a convincersi che per fondare una società seria e indistruttibile bisognava prendere per base la politica di Machiavelli e adottare pienamente il sistema dei gesuiti: per corpo la violenza, per anima la menzogna”.

Rom – “Gli intellettuali di sinistra adorano i Rom, perché li vedono soffrire molto senza mai sentirli
parlare” – Virginie Despentes, “Vernon Subutex”. Come i cani e i gatti? .

Roma – Senza latino, non ha alcuna ragione di essere la sede della chiesa cattolica. Robert Harris lo fa dire a un cardinale conservatore, nel suo thriller sul “Conclave”, ma non contestato: “L’abbandono del latino porterà da ultimo all’abbandono di Roma”, a cinquant’anni dal Consiglio Vaticano II molti se lo chiedono già, e “presto se lo chiederanno apertamente. Non c’è una regola nella dottrina o nella Scritture per cui il papa debba risiedere a Roma”.

Velo – “Non contente di occuparsi di tutto nella case senza mai lamentarsi, sentono ancora il bisogno di portare il velo per esibire la loro sottomissione. È guerra psicologica, questo è: è fatto perché il maschio francese senta come è svalutato”, “Vernon Subutex”. L’autrice, Virginie Despentes, lo fa pensare a un buon cattolico fallito nell’arte del cinema, ma è un discorso in linea col suo femminismo – col femminismo esibito nel racconto contestatore. Abbastanza realistico: il velo delle donne mussulmane è una scelta. Per marcare la differenza. Per marcare una superiorità, la “scelta” della sottomissione. Che di fatto non c’è, né in casa né nel diritto matrimoniale – la donna mussulmana, la donna araba in specie, non è sottomessa (lo stesso ripudio non è indolore).


letterautore@antiit.eu

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