Nisticò si è messo contro. E
– ma – vuole non risolvere il problema
ma porlo. Lo mima, lo rappresenta. La Calabria, terra di terremoti, ha poche cose
stabili. Nisticò si applica a
terremotare anche quelle. È terra di racconti di viaggio, specie
nell’Ottocento e nel primo Novecento - che il suo editore con merito ha ripreso in un’ottima
collana? Nisticò fa un “controviaggiatori”. Lo stesso per la metafisica e per
la morale, delle Calabrie. E per la
storia, la linguistica, la psichiatria (Lombroso, contro di lui ci vuole
poco), l’industria postbellica (alla Calabria sono toccate le peggiori
malefatte dei “pareri di conformità”, del sottogoverno: la Sir, la
Liquichimica, l’Isotta Fraschini, nonché centri siderurgici e megacentrali
elettriche, sulla carta) ma anche per la geografia, la toponomastica, e
perfino l’anagrafe. Una storia essenzialmente fuori della Grande Storia, o
vulgata. Perfino il nome ha posticcio, la penisola è stata Enotria, Italia, Bruzia.
Calabria solo dal VII secolo, dalla riorganizzazione amministrativa bizantina –
Virgilio muore tra i Calabri perché muore a Brindisi, Calabria era il Salento.
La regione oggi più
disorganizzata, e anche più povera statisticamente, Nisticò vuole peraltro per
effetto dell’ignavia indotta da molti secoli di naturale abbondanza, “il
soporifero benessere”: “Ordine, pace e prosperità non sono, di solito, grandi
incentivi alla vivacità culturale, tutt’altro” . Senza contare che, mondo ora
di “ricchi impoveriti e di poveri arricchiti”, in una metamorfosi sociale costante
che, se è segno di grande mobilità lo è pure di incapacità e inattività, senza
mai una classe dirigente, è stata “una regione ad alta intensità industriale”,
fino a tutto l’Ottocento, ed è vero. Terra per eccellenza di emigrati, anche se di mala voglia, da un
secolo abbondante ormai, è stata terra di immigrazione fino a fine Ottocento. E
anche questo è vero.
Un libro divertente. Anticonformista
e controcorrente di proposito. In linea col filone forse più vivo della
letteratura calabrese, da Ammirà a Zappone e Delfino, dell’irrisione - il brano finale, una sorte di Terra dello Zero, è un piccolo capolavoro. Che è la
vena quotidiana, di ogni riflessione o narrazione, anche in famiglia o tra
amici, anche delle cose più triviali o quotidiane, un “altro”occhio sulla vita,
rabelaisiano. Presentandosi, presentando le sue “poche e disordinate pagine”, da
saggista essendo evoluto, anche lui, in social
addict, Nisticò può così premettere: “Di cui io stesso non è che sia così
convinto”. Molte ipotesi storiche, notevolissime, meritevoli di
approfondimento, lasciando all’enunciato.
Ma sono pagine piene di
umori. E utili, anzi necessarie. Soprattutto nella parte prima, la storia delle
Calabrie, che è probabilmente il nucleo originario del libro, prima delle
umorali contrapposizioni.
Storico di formazione e
professione, editore della voluminosa “Calabtria illustrata” dell’abate Fiore,
2001, Nisticò riversa in un centinaio di fitte pagine fiumi di conoscenze, di
fonti documentali, cronache del tempo e repertori evidentemente in disuso
perché ignoti ai più, e quindi pieno di sorprese. Sui culti, i santi,
l’onomastica, la toponomastica, i calabresi celebri o meritevoli, i pazzi (creativi), gli albanesi,
in dettaglio, le ricostruzioni borboniche post-terremoto, utopia all’Aquila, o
a Amatrice, oggi, e tre o quattro revisioni notevoli della storiografia
dominante e scontata.
Si parte dai celebrati
Normanni di cui si presume di sapere tutto e invece manca l’essenziale, che
Nisticò recupera: l’asservimento del Sud alle baronie feudali, escidendo le
nascenti autonomie comunali, nonché alle faide dinastiche familiari, per un
complessivo impoverimento: “Tra vittorie e sconfitte Federico II consumò gran
parte delle ricchezze del regno di Sicilia” – si inimicò, va aggiunto, anche il
papato, con cui invece il regno normanno del Sud aveva prosperato, il papa chiamò
gli Angiò, e i suoi eredi fecero subito una brutta fine. Sulla premessa,
anch’essa finalmente onesta, che gli archivi sono andati gioiosamente dispersi,
quelli che i terremoti non hanno distrutto, con l’appropriazione della
manomorta – la spoliazione di parrocchie e conventi non a beneficio delle
comunità o dello Stato ma dei ceti borghesi che saranno l’Italia, specie al
Sud, la borghesia italiana, avida e incapace.
La vindicatio della storia spagnola di Napoli e della Sicilia apre
anch’essa delle porte. Il “luogo comune risorgimentale” che vuole il Regno “caduto
sotto il dominio spagnolo” è un sottoprodotto della storiografia francese, di
interessi nazionali e della “cultura illuministica e postilluministica, di cui
il più noto interprete è il Manzoni”: “Non si avvedevano, i dotti, e non si
avvedono di far irriflessa eco a una storiografia francese nazionalistica, anzi
strumento di politica e propaganda, e inglese di matrice protestante”.
Problematico, ma anche il
cardinale Ruffo e la spedizione delle sue Masse della Santa Fede sono di fatto
diversi da come sono stati liquidati - Fabrizio Ruffo è un valente generale. Compreso l’atto finale, l’esecuzione dei
partigiani della Repubblica partenopea. A essi il cardinale aveva concesso il
passaporto. Fu Nelson a imprigionarli e farli condannare. Si istigazione, si
disse, della regina Maria Carolina, che vendicava la sorella Maria Antonietta.
O forse per una guerra intestina tra opposte massonerie, l’obbedienza inglese e
quella francese.
Notevolissimo il concetto di regresso,
da un punto di vista progressista e non reazionario. Del progressismo che Nisticò
vitupera. Il progresso non è una freccia, si sa. Ma si fa in mezzo a mille fallimenti,
e questo si dimentica. Nozione oggi più che mai necessaria, perpetuandosi la
frana che dall’illuminismo aveva portato al positivismo e anzi aggravandosi nel
Millennio. Rimandando a Max Weber, che l’eccesso di razionalismo conduce al massimo
di irrazionalità.
Formidabile infine, è un
trattato, la mezza pagina sul presente continuo (l’aoristo greco) dell’eloquio
dialettale, che congloba il futuro e il passato, che è un modo di essere, “il
tempo senza tempo”. Con un cospicuo repertorio dei proverbi, che sono il “modo
di pensare” locale.
Una cornucopia. Ma bisogna
scavare. Le serie storiche, lucidissime, frutto evidente di ricerche bibliografiche
intense, se non archivistiche, sono putroppo ipercompresse, spesso lunghi
elenchi. L’aneddotica pure inevitabilmente ne soffre – la storia dei Boemondo,
dall’I al VI, coi 12 mila Calabresi alla prima Crociata, proseguita dal nipote
Tancredi. cui si rifece il Tasso, compressa in quattro righe. o delle mogli
longobarde dei Normanni, un riga. Con qualche errore – che un minimo di cura
redazionale avrebbe evitato. Una bibliografia, anche minima, sarebbe stata
utile.
Ulderico Nisticò, Controstoria della Calabria,
Rubbettino, pp. 165 € 10
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