mercoledì 29 agosto 2018

Ecco il regresso, modello Calabria

Di Ulderico non se ne trovano più nemmeno tra i Franchi, francesi o tedeschi che siano. La Calabria ha un nome antico e bello, ma è tante, troppe cose. A partire dallo stesso nome, che una volta era Italia – ed è solo una parte, si può aggiungere, di tutto ciò che l’unità ha seppellito. Nisticò l’apparenta infine al mulo, che procede sotto i carichi più gravosi bastonato e mite, e ogni tanto “sferra” all’improvviso e scalcia. Ma un mulo, allora, ricco, anche se non lo sa o non se ne cura, e anzi più che altro si applica a distruggere quanto ha. E questo è un aspetto, uno dei tanti: è difficile orientarsi, specie da quando i calabresi hanno preso la china dell’autodistruzione. E oggi, in epoca leghista, lombarda o del disprezzo sovrano, più che mai: i calabresi votano Lega.
Nisticò si è messo contro. E – ma – vuole  non risolvere il problema ma porlo. Lo mima, lo rappresenta. La Calabria, terra di terremoti, ha poche cose stabili. Nisticò si applica a  terremotare anche quelle. È terra di racconti di viaggio, specie nell’Ottocento e nel primo Novecento - che il suo  editore con merito ha ripreso in un’ottima collana? Nisticò fa un “controviaggiatori”. Lo stesso per la metafisica e per la morale, delle Calabrie. E per la storia, la linguistica, la psichiatria (Lombroso, contro di lui ci vuole poco), l’industria postbellica (alla Calabria sono toccate le peggiori malefatte dei “pareri di conformità”, del sottogoverno: la Sir, la Liquichimica, l’Isotta Fraschini, nonché centri siderurgici e megacentrali elettriche, sulla carta) ma anche per la geografia, la toponomastica, e perfino l’anagrafe. Una storia essenzialmente fuori della Grande Storia, o vulgata. Perfino il nome ha posticcio, la penisola è stata Enotria, Italia, Bruzia. Calabria solo dal VII secolo, dalla riorganizzazione amministrativa bizantina – Virgilio muore tra i Calabri perché muore a Brindisi, Calabria era il Salento.
La regione oggi più disorganizzata, e anche più povera statisticamente, Nisticò vuole peraltro per effetto dell’ignavia indotta da molti secoli di naturale abbondanza, “il soporifero benessere”: “Ordine, pace e prosperità non sono, di solito, grandi incentivi alla vivacità culturale, tutt’altro” . Senza contare che, mondo ora di “ricchi impoveriti e di poveri arricchiti”, in una metamorfosi sociale costante che, se è segno di grande mobilità lo è pure di incapacità e inattività, senza mai una classe dirigente, è stata “una regione ad alta intensità industriale”, fino a tutto l’Ottocento, ed è vero. Terra per eccellenza di emigrati, anche se di mala voglia, da un secolo abbondante ormai, è stata terra di immigrazione fino a fine Ottocento. E anche questo è vero.
Un libro divertente. Anticonformista e controcorrente di proposito. In linea col filone forse più vivo della letteratura calabrese, da Ammirà a Zappone e Delfino, dell’irrisione - il brano finale, una sorte di Terra dello Zero, è un piccolo capolavoro. Che è la vena quotidiana, di ogni riflessione o narrazione, anche in famiglia o tra amici, anche delle cose più triviali o quotidiane, un “altro”occhio sulla vita, rabelaisiano. Presentandosi, presentando le sue “poche e disordinate pagine”, da saggista essendo evoluto, anche lui, in social addict, Nisticò può così premettere: “Di cui io stesso non è che sia così convinto”. Molte ipotesi storiche, notevolissime, meritevoli di approfondimento, lasciando all’enunciato.
Ma sono pagine piene di umori. E utili, anzi necessarie. Soprattutto nella parte prima, la storia delle Calabrie, che è probabilmente il nucleo originario del libro, prima delle umorali contrapposizioni.
Storico di formazione e professione, editore della voluminosa “Calabtria illustrata” dell’abate Fiore, 2001, Nisticò riversa in un centinaio di fitte pagine fiumi di conoscenze, di fonti documentali, cronache del tempo e repertori evidentemente in disuso perché ignoti ai più, e quindi pieno di sorprese. Sui culti, i santi, l’onomastica, la toponomastica, i calabresi celebri o meritevoli, i pazzi (creativi), gli albanesi, in dettaglio, le ricostruzioni borboniche post-terremoto, utopia all’Aquila, o a Amatrice, oggi, e tre o quattro revisioni notevoli della storiografia dominante e scontata.
Si parte dai celebrati Normanni di cui si presume di sapere tutto e invece manca l’essenziale, che Nisticò recupera: l’asservimento del Sud alle baronie feudali, escidendo le nascenti autonomie comunali, nonché alle faide dinastiche familiari, per un complessivo impoverimento: “Tra vittorie e sconfitte Federico II consumò gran parte delle ricchezze del regno di Sicilia” – si inimicò, va aggiunto, anche il papato, con cui invece il regno normanno del Sud aveva prosperato, il papa chiamò gli Angiò, e i suoi eredi fecero subito una brutta fine. Sulla premessa, anch’essa finalmente onesta, che gli archivi sono andati gioiosamente dispersi, quelli che i terremoti non hanno distrutto, con l’appropriazione della manomorta – la spoliazione di parrocchie e conventi non a beneficio delle comunità o dello Stato ma dei ceti borghesi che saranno l’Italia, specie al Sud, la borghesia italiana, avida e incapace.
La vindicatio della storia spagnola di Napoli e della Sicilia apre anch’essa delle porte. Il “luogo comune risorgimentale” che vuole il Regno “caduto sotto il dominio spagnolo” è un sottoprodotto della storiografia francese, di interessi nazionali e della “cultura illuministica e postilluministica, di cui il più noto interprete è il Manzoni”: “Non si avvedevano, i dotti, e non si avvedono di far irriflessa eco a una storiografia francese nazionalistica, anzi strumento di politica e propaganda, e inglese di matrice protestante”.  
Problematico, ma anche il cardinale Ruffo e la spedizione delle sue Masse della Santa Fede sono di fatto diversi da come sono stati liquidati - Fabrizio Ruffo è un valente generale. Compreso l’atto finale, l’esecuzione dei partigiani della Repubblica partenopea. A essi il cardinale aveva concesso il passaporto. Fu Nelson a imprigionarli e farli condannare. Si istigazione, si disse, della regina Maria Carolina, che vendicava la sorella Maria Antonietta. O forse per una guerra intestina tra opposte massonerie, l’obbedienza inglese e quella francese.
Notevolissimo il concetto di regresso, da un punto di vista progressista e non reazionario. Del progressismo che Nisticò vitupera. Il progresso non è una freccia, si sa. Ma si fa in mezzo a mille fallimenti, e questo si dimentica. Nozione oggi più che mai necessaria, perpetuandosi la frana che dall’illuminismo aveva portato al positivismo e anzi aggravandosi nel Millennio. Rimandando a Max Weber, che l’eccesso di razionalismo conduce al massimo di irrazionalità.
Formidabile infine, è un trattato, la mezza pagina sul presente continuo (l’aoristo greco) dell’eloquio dialettale, che congloba il futuro e il passato, che è un modo di essere, “il tempo senza tempo”. Con un cospicuo repertorio dei proverbi, che sono il “modo di pensare” locale.
Una cornucopia. Ma bisogna scavare. Le serie storiche, lucidissime, frutto evidente di ricerche bibliografiche intense, se non archivistiche, sono putroppo ipercompresse, spesso lunghi elenchi. L’aneddotica pure inevitabilmente ne soffre – la storia dei Boemondo, dall’I al VI, coi 12 mila Calabresi alla prima Crociata, proseguita dal nipote Tancredi. cui si rifece il Tasso, compressa in quattro righe. o delle mogli longobarde dei Normanni, un riga. Con qualche errore – che un minimo di cura redazionale avrebbe evitato. Una bibliografia, anche minima, sarebbe stata utile.
Ulderico Nisticò, Controstoria della Calabria, Rubbettino, pp. 165 € 10

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