Un divertimento sessantottesco. Liberato, da ogni schema di genere - prolisso, ma ancora lieve. Si ascolta la “Missa solemnis” di Beethoven, seguita dal “Requiem” di Verdi, versetto per versetto – ricordando, al culmine dell’azione, che Toscanini usava cantare alle esecuzioni con i cantanti. Fidel Castro è già “moneta obsoleta”, ora c’è Walt Disney. C’è il consumismo, scandito capitolo per capitolo dagli Ubik – “con del denaro che non vale niente si acquistano articoli che non valgono niente”.
Questa è una delle tante
storie che Dick intreccia in in una sorta di carambola, quale sarà stata il primo
Novecento senza le grandi guerre. L’alter ego Joe Chip scompare nel 1992 e si
ritrova nell’America degli anni 1930. Si scruta il futuro perché il presente
non è presentabile – non che il futuro sia rassicurante. Dick avrà negli anni
più tardi una fase mistica, ma il senso religioso, il cristianesimo, il cattolicesimo,
è “precognito” in lui – una sorta di Chesterston del secondo Novecento in
California, nell’età e nel luogo della dissoluzione di ogni fede.
Dick al suo meglio, nell’uso
dell’arsenale linguistico e topologico della fantascienza per narrare se stesso
– il Joe Chip squattrinato, solitario, disordinato e sporchetto, che però ha un
talento, e si salverà, a dispetto di tutte, e anche di tutti – e l’epoca, disimpegnata e (ma) acquisitiva. In una ubiqua dissoluzione, se il mondo è delle cose.
Philip K. Dick, Ubik, Fanucci, pp. 229 € 9,90
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