Quando la
questione fu dibattuta, a fine Ottocento, si trovò che il capitalismo è venuto
con un certo senso religioso. Di una religione dell’individuo e della salvezza,
della salvezza individuale. Col cristianesimo. Contro questa posizione Émile
Durkheim, peraltro storico delle religioni, e teorico di un rapporto stretto
tra religione e formazioni sociali, argomentò che non era più così, che lo
spirito religioso era stato soppiantato nello spirito economico dalla
tecnologie e dalle innovazioni costanti socio-economiche. Gli storici delle
origini del capitalismo, Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902, e Max
Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, ribadivano invece che il
principio dell’accumulazione – risparmio, investimento - risiede nello spirito
religioso. Nello spirito cristiano.
Meglio si sarebbe
detto dopo la guerra. Come fece Walter Benjamin col progetto de “Il
capitalismo come religione”, 1921, anche se ha finito per lasciarlo allo stato
di frammento. Lo spirito dell’accumulazione può autonomizzarsi, farsi religione
per sé. Un approccio non ironico, da marxista convinto, seppure avventizio, quale
Benjamin si era fatto con la guerra. Un argomento ben
sopravvissuto alla morte del marxismo: chi ne dubiterebbe poggi? Sembra perfino
ovvio: la religione del calcolo, aritmetico e etico, dell’egoismo. Ma è così
ovvio come sembra?
Religione o dispersione
Già Weber e Sombart
presentavano il capitalismo, il principio della crescita economica, come l’esito
di un orientamento razionale nell’agire. Di un più geneale processo di
razionalizzazione. Ma di razionalizzazione “tecnica”, strumentale:
organizzazione, calcolo, lavoro qualificato, mercato orgnanizzato, normato. Mosso
però al fondo, e anzi originato, da un senso religioso della vita, finalistico.
Weber ci aggiungeva uno spirito “protestante” del capitalismo, volendo spiegare
“il carattere particolare del capitalismo occidentale e, in seno a questo, di quello
moderno, e le sue origini”. Il rapporto indagando tra lo “spirito capitalistico”
e le sette protestanti “ascetiche”, del thrift:
cavinisti, anabattisti, puritan. E anche dei pietisti, i luterani più vicini
per riti e liturgie al cattolicesimo. Una indagine quasi nazionalistica –
altrettanto pro-capitalista fu la r. Ma caricando di spirito religioso
l’operosità, l’abnegazione, lo zelo, la metodicità o organizzazione.
Resta ancora da dimostrare
che il principio dell’accumulazione è laico. O non piuttosto il secolarismo è per la dispersione? Gli
autori della ricerca ne hanno alla fine il dubbio, anche se nel vago. Danno conto
di studi che trovano una relazione biunivoca tra ricchezza e religione. Ma
soprattuttoi confessano che il rapporto di casualità rimane però “sconosciuto”,
anche perché varia nel tempo e nei luoghi. Sconosciuto cioè a loro: studiosi che
si pongono il problema immerse in una cultura secolare chiusa.
Il dubbio si può risolvere
agevolemnte: non c’è finalità nel secolarismo, a parte quella a corto,
cortissimo raggio, del lavoro ben fatto, quando c’è. Il secolarismo è il consumismo
:la dispersione. O giusto la ricostituzione del redditpo-per-la-spesa. Gli
autori del saggio si chiedono se “la carità religiosa organizzata non possa
inizialmente incoraggiare certi valori che facilitano lo sviluppo economico mengtre
delimitano l’individualismo”. Ma basterebbe guardare la carta geografica. La regione
probabilmente più prospera al mondo è il quadrilatero Lombardia-Veneto-Baviera-Svevia,
diviso dalla lingua, dalla storia e dalle Alpi ma unificato dalla religione –
dalla Controriforma. O leggere un po’ di storia. Di come la Lombardia divenne
prospera, dedita al “lavorerio”, sotto il controllo minuzioso e affaccendato di Carlo Borromeo, il
suo vescovo, un santo, un altro della Controriforma.
Damian Ruck-R.Alexander
Bentley-Daniel J.Lawson, Religious
change preceded economic change in the 20th century, “Science
Advances”, free online
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