Quarant’anni fa ieri
“L’Espresso” pubblicava il “manifesto” di Craxi, da due anni segretario del
partito Socialista Italiano, reduce da due sconfitte elettorali, nel 1975 alle
regionali, e nel 1976 alle politiche (9 per cento, minimo storico) – mentre il
partito Comunista Italiano arrivava ai suoi massimi storici (34 per cento).
Detto il “saggio su Proudhon” perché nelle polemiche con cui il Pci attaccò
massicciamente, come era d’uso per la macchina del Partito, il “giovanottone”
socialista, se ne ridusse la richiesta di un socialismo “democratico, laico e
pluralista” (cioè antileninista) e innovativo al vecchio antagonista di Marx.
In realtà, il testo si rifaceva anche e di più a Rosa Luxemburg, Bertrand
Russell, Bobbio, Gilas, Carlo Rosselli, Gilles Martinet. Ma era indubbiamente
un attacco alla monoliticità vecchio stile del Pci di Berlinguer, da cui Craxi
aveva appena smarcato il Psi nella questione Moro, se bisognava salvarlo,
oppure no.
L’attacco di Craxi,
accortamente portato sul piano delle idee e delle cose da fare, invece che
della polemica, ebbe successo. Alle elezioni nove mesi dopo il Pci di Berlinguer
arretrò di quattro punti, la prima sconfitta elettorale del Partito, il partito
Socialista non perse pù voti, anzi avanzò di qualche decimale – Craxi aveva preso
un Psi a metà 1976 in cui la vecchia guardia, De Martino, Mancini, Lombardi,
Giolitti et al. discutevano se rassegnarsi a liquidarne l’organizzazione, e
farne un partito d’opinione. Sembrava una “ripartenza”, in termini calcistici, e
lo fu, gli anni 1980 saranno un’ottima stagione di governo, con Spadolini e
Craxi a palazzo Chigi e Pertini al Quirinale. Ma fu presto soffocata, mandando l’Italia
alla deriva, ormai sono trent’anni. Da una piena che oggi si dice populista, ma
senza idee né capacità politica.
Bettino Craxi, Il Vangelo socialista, stralci,
“L’Espresso”
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