Bellezza - Veniamo dall’inferno della bellezza proustiana, che sa di Bosch e
non di Breughel, e quando è riposata fa intravedere Manet, e solo salva le
principesse mamme, ed è facile negare la bellezza. Che però è ovunque.
Virginia Woolf, Lady Sackville-West e Violet
Trefusis, importante storione d’amore, avevano i capelli a posto ma visi segaligni
e cavallini. Le racchie di Bloomsbury, che erano scrittrici, si corteggiavano
coi sottintesi, si esaltavano privandosi? La bellezza è dunque attrazione. Ci
sarà anche tra i netturbini, turbini insorgono durante la raccolta.
Fichte – Trascurato
(cattivo carattere?). Anche oggi, nel mondo che realizza le sue invenzioni. Della nazione. Dei primati. Dello Stato nazionale
chiuso, anzi dello “Stato economico chiuso”, l’opera che modellò il socialismo
e più non si pubblica: la libertà è la sicurezza fisica e materiale, la concorrenza
fa male.
Hegel – È altra razza – altra da Marx: Marx non parlava
con Dio, oppure sì ma non da beghino, beveva, s’infatuava, s’indebitava. Hegel è un
pietista rifatto illuminista.
Che incrocio, la ricerca
di Dio, o anima del mondo, calata nella filosofia per despoti.
Io
–
Siamo tutti “romanzieri esperti e raffinati”, dice McEwan, citando un Jerome
Brunnes, “The Remembered Self”. Non solo gli scrittori. I lettori sono cullati
in questa ipotesi, che sono loro a farsi la storia, il libro. Con la lusinga
sottintesa che ognuno costruisce se stesso, così come costruisce i “suoi”
personaggi. McEwan, nel racconto “Il mio romanzo viola profumato”, cita Mary
McCarthy: “Prima o poi cominciamo in un certo senso a sceglierci o a inventarci
l’io che vogliamo”. Ma, allora, al netto del patrimonio genetico, della
famiglia, dell’infanzia, della malattia, degli incidenti, del lavoro, dei vicini,
di banco, di casa, di scrivania, di posto, e delle catastrofi, naturali,
infettive e belliche… Nella “immensa baraonda della vita” che Henry James
lamenta.
Marx – Se si (ri)leggesse, una colonna emergerebbe – tralasciando la sua
attività politica dopo la delusione del Quarantotto – liberale. Non del tipo
romantico. Di quello realista, dopo Machiavelli e Hobbes, che si occupano delle
condizioni reali della libertà.
Marx era e rimase un
borghese, anche nella teoria della rivoluzione, nonché del materialismo e del
proletariato. Fu protagonista del Quarantotto, col suo giornale, la “Neue
Rheinische Zeitung”, sostenendo la guerra tedesca contro la Russia, la
Danimarca, e i polacchi austriaci. Compagno e mallevadore, già autore a
ragione celebrato del “Lohengrin”, quel Wagner che proclamava “il tedesco è
conservatore”, e “solo l’assolutismo è”, grazie a Dio, “tedesco”.
Nasce romantico, e per
questo, per farsi perdonare, esagererà nella critica: il suo borghese sta tra
il romantico e il filisteo, che è il borghese non romantico. Poi fu
un emigrato. Arrivò al socialismo critico non dai bisogni del proletariato, che
non conosceva, ma da se stesso, giovane, tedesco, intellettuale del Marzo ’48,
eretico per esigenze di ruolo, il condottiero che, aperto un varco, ci erige
sopra il suo castello, da hegeliano. E da hegeliano rovesciato il castello lo
fa al quadrato. Che non è apostasia, non c’era il marxismo all’epoca, ma un
modo d’essere, non antipatico.
Marx sarebbe stato in
guerra con i suoi esegeti - li avrebbe spernacchiati, usava così: lui non ha
colpa del chiacchiericcio che lo ha seppellito, parlava e scriveva diretto. È
Cristo, anche se non lo sapeva, con la barba, evangelico – se era ebreo, s’è
convertito: per il dovere del paradiso in terra, della giustizia. Un Cristo
laico, per la fregnaccia del Diamat. La classe resta vaga, su cui ha scritto
migliaia di pagine, ma non sarà una goliardata? Alla fine, dopo tanta politica,
non ha una teoria politica – la classe non è una.
Molta politica del resto
è retorica, un bel dire: Marx lo scoprì di Machiavelli, che riscriveva
Sallustio, “La congiura di Catilina”, o Tacito, che rifece
Sallustio.
Si vuole Marx economista
e agitatore e non filosofo. E invece lo è, sotto forma di Heidegger, il primo
marxista: i tedeschi della rivoluzione conservatrice, che Marx abominavano, se
ne sono appropriati i criteri e gli obiettivi, anche se solo in funzione
antiliberale.
Fu economista
fantasioso, essendo autodidatta, mentre fu politico mediocre - litigioso,
invidioso, e inefficace. Marx del resto è Napoleone, seppure con la
ghigliottina di Robespierre. Pensa come Napoleone più che come Hegel:
semplifica la storia perché vuole farsene una. Rilancia, sul supporto di Hegel
e della storia rivelazione, l’unicità della Rivoluzione francese nel senso
della compattezza, e anzi della monoliticità. Che è come la Rivoluzione si
presentò nel mondo, ma questo a opera di Napoleone, della conquista
napoleonica.
I Marx erano, e sono,
una famiglia nobile dell’ortodossia ebraica. Nel ’48 Marx ebbe a compagna di
rivoluzione, con Wagner, Malwida von Meysenburg, benché già matura. Nei gironi
di Dante starebbe a uno superiore, grande la barba, segno di saggezza, e il
carico di gloria, ma assiderato nel cuore e le membra per l’errore di giudizio.
Per avere congelato il lavoro, la più democratica delle passioni. Mentre
l’economia che realizza le condizioni da lui poste per il comunismo,
quella yankee, ne è immune, e anzi vaccinata.
È vero che il lavoro è
semplice, pochi moduli ricorrenti, la competizione, la fede, la cura, la
stanchezza, più frequente che non. È la vita al suo minimo, la sopravvivenza
trasferita dalla savana all’aria condizionata, con la busta paga e la pensione,
per questo il lavoro non ha buona fama. Ma è il proprio dell’uomo, un atto di
fede, ogni mattina, oggi che l’economia è monetaria e bisogna fare soldi, e
anche prima, ogni mattina l’applicazione costante a qualcosa di nuovo, sia pure
ripetitivo senza residui come il moto perpetuo, un’eterna pedalata. Si è sempre
autocritici, quindi anche del lavoro. Ma è parte del lavoro.
Morte
–
Se ne fa l’esaltazione istrionicamente, come a teatro – il teatro protegge.
Passione
–
È patire, non una bella cosa. È da Omero che
la psicologia, umana e divina, ha coscienza di esser dominata da passioni irresistibili
e inspiegate, in forma di possessione. Che ogni volta lasciano un segno, ed
ecco le metamorfosi, l’ira di Achille, l’inganno di Ulisse. Più forte e comune
è la possessione in forma di amore. Ma né in Omero né dopo si spiega come a
queste metamorfosi resti indenne chi le provoca, sia esso ninfa o diavolo. È il
problema della bellezza, che molti trasforma, forse pure gli dei, e può restare
inalterata, inalterabile.
Poststoria
–
Siamo nel ciclo della storia. Felicemente: orgogliosi, inventivi, fattivi,
anche nelle sconfitte, assertivi anche se (proprio perché) critici. C’è stata
una preistoria. Dopo una protostoria, un neolitico, e un tempo incalcolabile
dal Big Bang. Ci sarà una poststoria? Sembra inevitabile, nella macchina
tritatutto dell’evoluzione. Ma non postumana – certamente non questa
dell’intelligenza artificiale, tipico sviluppo umano. Siamo “condannati” alla
storia Alla memoria e all’azione - quel 2 per cento, o 0,2 per cento, che secondo
Desmond Morris caratterizza l’uomo rispetto all’orango.
Ragione - “Ho perso la ragione”, André Jolles scrisse a Aby Warburg da
Firenze, e la ragione era la fanciulla che segue le tre matrone della stanza
della puerpera del Ghirlandaio per La
nascita di san Giovanni Battista a Santa Maria Novella, vaporosa, svagata e
fremente.
Ma non sarà male: Jolles ne deriverà
l’attenzione per l’insignificante nella narrazione - anche se a lungo si sentì col
Ghirlandaio come Hylas, il giovane amante di Eracle, dalle ninfe avviluppato a
dolce morte.
zeulig@antiit.eu
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