Finalmente una storia
documentata – l’appendice è ricca di una quarantina di documenti. E scorrevole
alla lettura. Anche se con incomprensibili economie: un indice dei nomi sarebbe
stato benvenuto, e perché non corredare le citazioni col nome dell’autore, e i
documenti dei riferimenti originali (lingua, anno, luogo, etc.)?
Ancora prima che dai
Normanni, ultima migrazione tribale dei predoni girovaghi del Nord-Est, il Sud
era ambito dagli imperatori. Federico Barbarossa fece sposare sposare al
figlio-erede Enrico VI la zia
dell’ultimo re normanno, Costanza, alla quale il regno sarebbe toccato in
eredità. E alla morte d Guglielmo II il Buono ne prende possesso. È una storia
che avrebbe potuto essere diversa, non fosse stato per gli errori di Federico
II, che indebolì l’impero, e il regno del Sud.
Questa è una delle revisioni di
Caridi, cui lo storico procede pianamente, matter-of-fact,
senza polemiche. È riabilitato il cardinale Ruffo, quello che riconquistò
Napoli per i Borboni. Sulla scorta peraltro di Croce, che del cardinale aveva
messo in risialto la natura carismatica e non sanguinaria – fu Nelson che,
contravvenendo ai patti, fece trucidare gli esponenti della Repubblica
partenopea. Di Federico II il ritratto è in controluce. Molto è question e di
fiscalismo eccessivo, di moltiplicazione dei nemici, e di incostanza nelle
decisioni, più che delle celebrate doti di mecenate e promotore delle arti e la
poesia. Lasciando alla morte la Sicilia divisa in una “repubblica delle
vanità”, secondo un cronista (senza nome…) dell’epoca. È invece apprezzato il
mezzo secolo aragonese, di Alfredo il Magnanimo e Ferrante.
Una storia attenta ai fatti
economici e demografici. Il coté
politico essendo presto detto: una lotta di sei secoli dei baroni, eredità
normanna, contro i tentativi della corona, angioina, aragonese, spagnola,
asburgica, borbonica, di creare uno Stato, una nazione. Una storia
prevalentemente di scontri, fra la feudalità e i re di Napoli, a partire dagli
Aragonesi nella seconda metà del Quattrocento. Contro i quali i baroni giocarono
gli stessi Angioini, e poi la corona francese, fino a provocare la rovinosa
discesa di Carlo VIII.
Una regione ricca, malgrado
la feudalità. Tanto arcigna sui propri “diritti” quanto “assente”, cioè inerte,
incapace. Di baroni che hann protetto fino all’arrivo dei francesi a fine
Settecento feudi dei quali si disinteressavano, anzi si gloriavano d non sapere
nulla - per puntiglio. Una regione ricca malgrado avesse la sua produzione
principale, la seta, soggetta a concessione governativa, e quindi
contingentata, con arbitrio più o meno fondato. Con una sperequazione fiscale
enorme, a vantaggio dei nobili, e ancora di più degli ecclesiastici, che non
pagavano niente – da qui i tanti ecclesiastici.
Una storia che di per sé è
una vindication, rispetto alla tabula rasa, da terra nullius, l’ideologia dell’unificazione. Le guerre dei baroni,
la feudalità senza obblighi, l’ingiustizia fiscale, la storia si direbbe di
malgoverno, nulla di nuovo. Ma nemmeno questo è vero: il Regno del Sud fu il
primo, una volta indipendente, sebbene sotto la corona spagnola, borbonica, a
illuminare la legislazione, a metà Settecento, quando il resto dell’Italia, e
gran parte dell’Europa, navigavano ancora nell’oscurità, forte di molti
cervelli di prestigio, Galiani, Genovesi, Filangieri, Tanucci, Grimaldi,
Galanti.
La Calabria è sempre stata
dipendente da Napoli, nel regno di Napoli prima, e poi, con Carlo di Borbone,
delle Due Sicilie, quando l’isola dopo cinque secoli fu ricollegata al
continente. Ma più che vittima se ne può dire compagna di sventura.
Giuseppe Caridi, La Calabria nella storia del Mezzogiorno,
Città del Sole, pp. 335 € 16
Nessun commento:
Posta un commento