La secolarizzazione – siamo
negli anni del pontificato di Ratzinger – ricondotta dal teologo Dotolo e da
Vattimo a una matrice ebraico-cristiana, come distinta e opposta alla matrice ellenistico-cristiana.
È la conclusione di un dibattito che i due svolgono in varie sedi tra il 1999 e
il 2005, sul presupposto del Dio ebraico nel cristianesimo, di Dio e uomo partner di una libera alleanza,
adombrato da Vattimo nel saggio “Credere di credere”, 1996, attraverso la kenosis di san Paolo, “l’abbassamento,
lo svuotamento, l’annichilamento di Cristo nell’incarnazione” (G.Giorgio).
Il filosofo Giovanni Giorgio
ne ha riordinato gli svolgimenti, in due distinte interviste, poi confluite nel
libro in forma di dibattito. Vattimo ne chiarisce il senso all’inizio
dell’intervista, pur escludendosi dal terreno della teologia. Il cristianesimo
è a un bivio, se “assumere con coerenza le implicazioni o le conseguenze di una
prospettiva di secolarizzazione” oppure no, se essere statico o dinamico. Ma
non a una scelta: “Questo tipo di cristianesimo che apparentemente dispensa sicurezza,
risponde più ad una religione statica stanca che non a un’esperienza religiosa
radicata nell’affermazione biblica di un rapport tra partner liberi e affidabili”.
Un dibattito curioso, che
ribalta molto senso comune. Ma senza eccessi né riserve. La secolarizzazione si
radica nella tradizione ebraico-cristiana, il filosofo e il telogo convergono.
Una revisione suicida? No. “L’enfasi sulla capacità di azione dell’uomo”,
Giorgio anticipa la conclusione, “inteso
ormai come soggetto, su una natura non più sacralmete intoccabile, intesa ormai
come oggetto, dentro una storia di emancipazione di cui egli appare
protagonista, apre possibilità nuove di comprensione”. Questo Prometeo è
cristiano: la secolarizzazione va “intesa come interpretazione dei contenuti
della rivelazione cristiana, e non come sua liquidazione”.
La conclusione non è subdola.
La “desacralizzazione si basa, in effetti, sull’idea della mondanità del mondo
che è tipica della tradizione ebraico-cristiana, e sulla quale si reggono la
dottrina della creazione e quella dell’incarnazione”. Ma “se il rapporto di
creazione che articola la relazione tra Dio e mondo, legittima il mondo come
altro da Dio, come ciò che Dio stesso non è”, se la creazione è “di uno spazio
ateo, per dirla con Lévinas o con la Weil”, bene, “in questo spazio abita
l’uomo, e proprio perché Dio e mondo non sono lo stesso, Dio e uomo possono
incontrarsi come partners di una
libera alleanza”. L’incanazione è l’accettazione di questa alterità –
irriducibilità.
Ne consegue che – o ne è il
presupposto – il cristianesimo è “l’antidoto a ogni fondazionalismo”, a chi
ritiene di “poter raggiungere il fundamentum
inconcussum “ sul quale “incastrate la realtà una volta per tutte.
Chiudendo così, senza ironia, ilcerchio: “Troppi sono stati i fundamenta inconcussa nella storia del
pensiero occidentale per poterci ancora credere”.
Si radica qui il Dio in fieri di Vattimo. Le vecchie storie di
“come è fatto Dio” essendo state annichilate dalla kénosis, dall’incarnazione, dalla rinuncia di Dio a fare il Dio,
Dio di volta in volta è la “possibilità buona”, storicizzata. Pur arguendo infine,
nel “Proscritto” a “Credere di credere”, un “bisogno della grazia come dono che
viene da un altro”, sia esso ente, storia, tradizione, eserienza, un dono
comunque da coltivare. Si salva chi vuole.
Gianni Vattimo-Carmelo
Dotolo, Dio: la possibilità buona,
Rubbettino, remainders, pp.XXIII + 87 € 5
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