Il giovane scrittore già affermato con
l’epopea grigia della guerra non ha ancora idee precise, ma già risponde a
quello che è forse il sentito intimo tedesco: di un nazionalismo non
aggressivo, né reazionario, anzi a suo modo rivoluzionario. La rivoluzione
conservatrice è nozione ardua, eppure tiene – ed è forse il collante giusto per
la Germania. Della Germania si attendeva in quegli anni, a partire dalla Novemberrevolution del 1918, la
rivoluzione rossa mancata di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, ma Jünger sapeva che
non era possibile, non era nelle corde del tedesco. Lo slogan liberale, lo
slogan umanitario sono appunto slogan per il tedesco (“Lo slogan liberale”, 12 giugno 1927, “Arminius”): “Di fronte allo slogan liberale il tedesco si pone
nel tipico atteggiamento del semierudito. Se fosse incolto, lo assumerebbe del
tutto acriticamente. Se fosse profondamente colto lo riconoscerebbe nel suo
senso autentico”. Lui si ferma a metà, e allora “gli capita quel che capita al
selvaggio con l’acquavite: procura un’ebbrezza cattiva”. Non è una novità. E non era allora una veduta eccentrica. Ma lui ci arriva da solo, per intuito, senza studi speciali di sociologia politica, e questo la fa probabilmente più vera.
Il meno avventuroso dei tre tomi di
scritti politici (giornalistici per lo più) di Jünger tra il 1919 e il 1933.
Fino all’avvento di Hitler. Che da un certo punto di vista era il tradimento
della “rivoluzione cn servitrice”. Ma la
“curiosità da entomologo” di Jünger, che Federico Fellini rivendicava, agisce
anche nelle acque morte degli anni senza storia.
Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra. II vol. 1926-1928, Libreria Editrice
Goriziana, pp. 346 € 21
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