La fotografia ha “tradito la
missione cui doveva dedicarsi”. Di più: la fotografia è vedere il falso. La
proposta cioè di un falso. Il fotografo vede il vero ma rappresenta-fotografa
una sua idea, e quindi rappresenta il falso. Chi, dove? Gli esempi sono ormai
noti, “Il miliziano” di Robert Capa, la “Bandiera a Iwo Jima” di Joe
Rosenthal, la “Napalm Girl” di Nick Ut – e la fame in Africa, i bambini
denutriti, malati, abbandonati? tutta roba di Madison Avenue, la centrale della
pubblicità, e poi di Hollywood, di docufilm di studio, ma pur sempre favoriti,
stimolati, dall’immagine.
Sono “verità” anche
sopravvalutate. Si fa finire – perdere – la guerra Americana al Vietnam con la
“Napalm Girl” l’8 giugno 1972. Ma la guerra era stata già perduta dagli Usa,
nell’opinione americana e secondo l’arte militare, già quattro anni prima, il
16 marzo 1968, col massacro di My Lai. Quando un plotone americano, al comando
di un sottotenente di 25 anni più inetto che cattivo, sterminò 347 persone inermi
– era la coda dell’offensiva del Tet, la pazzesca battaglia scatenata dal
generale vietnamita Giap, che così vinse la guerra pur perdendo la battaglia.
Ma a Zoja questo non
interessa. Segue il percorso come l’immagine si impone a verità, e ne scova
sottintesi, precedenti, derive. Una trattazione agile, benché impervia, con
riferimenti estetici, religiosi, espistemologici, psicologici. Su un fondo di iconoclastia, l’avversione per le
immagini, fisse o in moto che siano: l’immagine come una profanazione
dell’umano. Giusto l’interdetto di Claude Lanzmann sulle immagini della Shoah,
e le immagini in genere di orrori. Di Lanzamnn regista di molti film, anche
dell’Olocausto.
La fotografia come specchio
di verità era lascito positivista, l’espressione propria di un secolo
Excelsior, presuntuoso più che bugiardo - ma non solo la fotografia, bisogna
aggiungere, la fine della storia non era allora vicina. Il lampo di luce che fa
la fotografia ne fa anche la mobilità, parzialità, irrealtà. Di cui è summa, spiega lo psicoanalista, l’immagine
fissa, quella fotografica.
Con chi ce l’ha lo
psiocoanalista? Non con chi crede alla fotografia – credere è un atto, una
scelta. Con chi la - o se la - presenta come prova di verità. Si sono fatti
processi sulla foto di My Lai. Era già detto in Barthes. O in Susan Sontag:
“Possedere il mondo sotto forma di immagini significa, esattamente, risperimentare
l’irrealtà e la lontananza del reale”.
Un’altra immagine
dell’immagine è tuttavia possibile. Ernst Jünger, il narratore della guerra, e
della nuova condizione umana, del guerriero diventato lavoratore, curò attorno
al 1930 ben cinque volumi di fotografie. Colpito dalla capacità dell’obiettivo
di cogliere le “espressioni” degli uomini e delle cose. In contesto e fuori, ma
sempre in un momento metamorfico, capace di documentarlo. Nel quadro della sua traccia caratterizzante,della modernità egualizzatrice
(uniformante), per i singoli e per la società. “La vita moderna produce immagini
caratterizzate da una sempre maggiore geometria… Una disciplina automatica cui
sono sottoposti sia l’essere umano sia I suoi strumenti”. In un breve saggio
confluito nel catalogo della mostra fotografica “La violenza è normale? L’occhio
fotografico di Ernst Jünger” nel 2007 a Brera, mette in guardia sul “nuovo
primitivismo” della civiltà delle immagini, e sulla sua violenza “tecnica”,
connaturata al mezzo. Nel quadro del suo tema più noto, la non verginità del
mezzo: “La tecnica possiede il senso di un mezzo esistenziale in confronto al
quale la differenza delle opinioni non ha che un ruolo subordinato”. Non si
tratta di verità ma di realtà effettuali.
Jünger è autore problematico,
ma la sua lettura è quella di tutti, senza colpe, nemmeno veniali – siamo nella
civiltà dell’immagine per qualche motivo. Il suo è solo il primo ripensamento del linguaggio delle immagini, che
sarebbe stato successivamente fertile, tra gli altri con Benjamin, Barthes,
Sontag – la quale spesso cita Jünger.
L’intuizione jüngeriana della diabolicità del mezzo è
più che suggestiva. Nel suo breve testo della mostra milanese esemplifica questa
conclusione con “La corazzata Potëmkin” e, con qualche riserva per le alcune
parti “sterili” del film, con “Metropolis”. Posteriormente avrebbe trovato lo
stesso linguaggio violento (manipolativo, impositivo) in “Arancia meccanica”,
in “Odissea “2001”. Ma non ci sono romanzi o racconti altrettanto evocativi
delle tre epoche o mondi. Anche storici, storicamente “esatti”. L’immagine che
crea il mondo resta ipotesi dubbia. Ma se Jünger avesse pubblicato libri
illustrati dopo il 1933 forse avrebbe trovati altri esempi: quanta Leni
Riefenstahl è Hitler, e quanto Hitler è Riefenstahl, giovinezza, forza, bellezza?
Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso, Einaudi, pp. 125 € 12
Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso, Einaudi, pp. 125 € 12
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