sabato 22 settembre 2018

La civiltà dell'immagine è la civiltà del falso


La fotografia ha “tradito la missione cui doveva dedicarsi”. Di più: la fotografia è vedere il falso. La proposta cioè di un falso. Il fotografo vede il vero ma rappresenta-fotografa una sua idea, e quindi rappresenta il falso. Chi, dove? Gli esempi sono ormai noti, “Il miliziano” di Robert Capa, la “Bandiera a Iwo Jima” di Joe Rosenthal, la “Napalm Girl” di Nick Ut – e la fame in Africa, i bambini denutriti, malati, abbandonati? tutta roba di Madison Avenue, la centrale della pubblicità, e poi di Hollywood, di docufilm di studio, ma pur sempre favoriti, stimolati, dall’immagine.
Sono “verità” anche sopravvalutate. Si fa finire – perdere – la guerra Americana al Vietnam con la “Napalm Girl” l’8 giugno 1972. Ma la guerra era stata già perduta dagli Usa, nell’opinione americana e secondo l’arte militare, già quattro anni prima, il 16 marzo 1968, col massacro di My Lai. Quando un plotone americano, al comando di un sottotenente di 25 anni più inetto che cattivo, sterminò 347 persone inermi – era la coda dell’offensiva del Tet, la pazzesca battaglia scatenata dal generale vietnamita Giap, che così vinse la guerra pur perdendo la battaglia.
Ma a Zoja questo non interessa. Segue il percorso come l’immagine si impone a verità, e ne scova sottintesi, precedenti, derive. Una trattazione agile, benché impervia, con riferimenti estetici, religiosi, espistemologici, psicologici.  Su un fondo di iconoclastia, l’avversione per le immagini, fisse o in moto che siano: l’immagine come una profanazione dell’umano. Giusto l’interdetto di Claude Lanzmann sulle immagini della Shoah, e le immagini in genere di orrori. Di Lanzamnn regista di molti film, anche dell’Olocausto.
La fotografia come specchio di verità era lascito positivista, l’espressione propria di un secolo Excelsior, presuntuoso più che bugiardo - ma non solo la fotografia, bisogna aggiungere, la fine della storia non era allora vicina. Il lampo di luce che fa la fotografia ne fa anche la mobilità, parzialità, irrealtà. Di cui è summa, spiega lo psicoanalista, l’immagine fissa, quella fotografica.
Con chi ce l’ha lo psiocoanalista? Non con chi crede alla fotografia – credere è un atto, una scelta. Con chi la - o se la - presenta come prova di verità. Si sono fatti processi sulla foto di My Lai. Era già detto in Barthes. O in Susan Sontag: “Possedere il mondo sotto forma di immagini significa, esattamente, risperimentare l’irrealtà e la lontananza del reale”.
Un’altra immagine dell’immagine è tuttavia possibile. Ernst Jünger, il narratore della guerra, e della nuova condizione umana, del guerriero diventato lavoratore, curò attorno al 1930 ben cinque volumi di fotografie. Colpito dalla capacità dell’obiettivo di cogliere le “espressioni” degli uomini e delle cose. In contesto e fuori, ma sempre in un momento metamorfico, capace di documentarlo. Nel quadro della sua traccia caratterizzante,della modernità egualizzatrice (uniformante), per i singoli e per la società. “La vita moderna produce immagini caratterizzate da una sempre maggiore geometria… Una disciplina automatica cui sono sottoposti sia l’essere umano sia I suoi strumenti”. In un breve saggio confluito nel catalogo della mostra fotografica “La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger” nel 2007 a Brera, mette in guardia sul “nuovo primitivismo” della civiltà delle immagini, e sulla sua violenza “tecnica”, connaturata al mezzo. Nel quadro del suo tema più noto, la non verginità del mezzo: “La tecnica possiede il senso di un mezzo esistenziale in confronto al quale la differenza delle opinioni non ha che un ruolo subordinato”. Non si tratta di verità ma di realtà effettuali.
Jünger è autore problematico, ma la sua lettura è quella di tutti, senza colpe, nemmeno veniali – siamo nella civiltà dell’immagine per qualche motivo. Il suo è solo il primo ripensamento del linguaggio delle immagini, che sarebbe stato successivamente fertile, tra gli altri con Benjamin, Barthes, Sontag – la quale spesso cita Jünger.
L’intuizione jüngeriana della diabolicità del mezzo è più che suggestiva. Nel suo breve testo della mostra milanese esemplifica questa conclusione con “La corazzata Potëmkin” e, con qualche riserva per le alcune parti “sterili” del film, con “Metropolis”. Posteriormente avrebbe trovato lo stesso linguaggio violento (manipolativo, impositivo) in “Arancia meccanica”, in “Odissea “2001”. Ma non ci sono romanzi o racconti altrettanto evocativi delle tre epoche o mondi. Anche storici, storicamente “esatti”. L’immagine che crea il mondo resta ipotesi dubbia. Ma se Jünger avesse pubblicato libri illustrati dopo il 1933 forse avrebbe trovati altri esempi: quanta Leni Riefenstahl è Hitler, e quanto Hitler è Riefenstahl, giovinezza, forza, bellezza?
Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso, Einaudi, pp. 125 € 12

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