Certificati morenti dal Procuratore di
Agrigento, accolti come profughi e quindi come rifugiati, privilegiati nella
richiesta di asilo, gli immigrati della “Diciotti” se la sono data. Rischiano
l’espulsione e lo sanno, ma non la temono, sanno che non si arriverà a tanto. Sono
arrivati per uno scopo, sapevano dove andare, non erano denutriti né malati -
né perseguitati dai libici con la tortura video modello Dustin Hoffman, “Sesso
e potere”, 1997 (allora bisognava commuoversi per l’Albania).
L’immigrazione clandestina è in parte
familiare, di ricongiungimenti (mogli, figli), in parte economica, per una
piccola percentuale politica (quella attraverso il Mediterraneo minima, l’1 per
cento e anche meno), di profughi in fuga da guerre e persecuzioni. Il fatto è
noto, e andrebbe regolato. Garantendo a chi ha la possibilità, anche indiretta,
di un’occupazione un viaggio normale, con visto, e scoraggiando i clandestini
dall’avventura.
Ma una politica dell’immigrazione
sgonfierebbe il traffico di esseri umani: è per questo che non si fa? Di africani
che servono al commercio ambulante irregolare, oppure alla manovalanza spicciola,
familiare o aziendale, a paga irrisoria. Ma nemmeno questo serve a
portare alla sua realtà l’immigrazione selvaggia. Che è peraltro fonte di un
alto tasso di criminalità: un terzo dei detenuti è immigrato, contro il 9-10
per cento della popolazione che risulta immigrata.
Una commedia dei furbi attorno a un mercato degli schiavi, il business umanitario non
si fa scrupoli, tartufesco: “I centri di accoglienza non sono prigioni”. E poiché non è
stupidità, e non può essere pregiudizio, certi fatti sono fatti, c’è collusione.
La tartuferia clericale non muore mai, ma i preti sono pochi nel business.
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