Solženycin, che l’esperienza di
Ivan ha vissuto personalmente, non ne fa un atto di accusa. Cioè, l’accusa è
implicita, nel fatto stesso che ci fossero campi e condanne di questo tipo. Quello
che scrive è il mondo senza il sovietismo: come un prigioniero, innocente, isolato
in un inferno di ghiaccio, mantenga umanità e dignità critica, seppure limitata
alla sopravvivenza. È così che il racconto resta tuttora vivace, e quasi ilare.
Una sorta di racconto di avventure. Anche senza la vergogna sovietica.
Nel 2006 il racconto è stato
rivisto e integrato dallo stesso Solženycin. Senza i compromessi cui era
addivenuto con la censura nel 1962 – il racconto, pronto nel 1960, subì due
anni di trattative. La riedizione ricomprende anche, ritradotti, i due racconti
che ne accompagnavano la prima edizione, ora intitolati “La casa di Matrëna” e
“Accadde alla stazione di Cocetovka”. A cura e con la traduzione di Ornella
Discacciati. Più cruda e più realista – meno toscaneggiate – ma anche quella di
Raffaello Uboldi a caldo, nel 1963, un anno dopo l’uscita su “Novyi Mir”, era di ghiaccio.
La vecchia edizione si avvaleva
di un’introduzione - anonima ma dello stesso Strada (traduttore del secondo racconto, il terzo era tradotto da Clara Coisson) - nella quale si cita a
lungo Vittorio Strada come interprete critico di Solženicyn alla prima
pubblicazione. Strada ne avverte subito la
sostanza e il peso – Solženycin sarà Nobel nel 1970 - richiamando Remizov e
Platonov.
Il richiamo a Platonov – lo
scrittore di cui Discacciati è specialista – Strada culmina dichiarando questa
prima opera di Solženycin “una delle più schiette opere socialiste della
letteratura sovietica”. Ma è difficile che ci sia una “letteratura sovietica”,
se non come arco temporale, a parte le macerie. “Una giornata” ne è la
negazione più radicale, di una vita, una vita umana, che si svolge al di sotto
e al di fuori del sovietismo. Dei regolamenti cioè e della frusta, la negazione
di ogni poesia.
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