Nel 1815, di 17 anni, fra il
19 maggio e il 17 giugno, al suo terzo o quarto scritto, Giacomo Leopardi fa il
papà conte Monaldo: inveisce contro la rivoluzione francese, e inneggia alla
liberazione degli Stati pontifici, compreso il suo Piceno, dall’occupazione
gallica. Nulla di interessante alla lettura, ma sì in chiave storica: il
bonapartismo probabilmente, più che le idee della rivoluzione, aveva reso la
rivoluzione antipatica, la Restaurazione non fu solo una congiuntura bellica.
All’“Orazione” il giovane Leopardi fu mosso, più che dalla liberazione, dal fallimento del Regno italiano di Murat, dalla fine definitiva del bonapartismo, un sistema familistico,
più monocratico di quello papale.
Un libello, con due curiosità
attaccate. Una è che è antifrancese, non c’è dubbio possibile, ma è
stato a lungo considerato fra i primi testi costitutivi del Risorgimento –
Leopardi è più detto che letto? Il secondo è la curiosa tradizione italiana di
misogallismo nella quale l’“Orazione” si inquadra, sempre in un’ottica nazionalistica.
Che si può tracciare già in Dante. E poi nel francesissimo Petrarca. E in molta
pubblicistica, narrativa o storica, del Quattro-Cinquecento. Con Machiavelli, che pure fu a lungo ambasciatore in Francia, e
Guicciardini. Che culminerà nel “Misogallo” di Vittorio Alfieri. Dubiterà della
rivoluzione, degli effetti della rivoluzione, lo stesso francesista Manzoni.
Leopardi non fa molto: si compiace della sconfitta subita a Tolentino da
Murat, « usurpatore » succeduto a un « oppressore ». Per
una serie di eventi che confermavano la deriva bonapartista (familistica, personale)
della rivoluzione. Ne fa la sintesi Saverio Ieva, in “Amor di patria e
misogalismo nel giovane Leopardi” (in “Italies”, 2002). Caduto Napoleone, le
Marche non furono restituite al papa: “Murat le aveva occupate in nome
dell’Austria, con il pretesto di liberarle e proteggerle. Dopo Lipsia, infatti,
Murat aveva cercato di conservare il regno di Napoli separando le sue sorti da
quelle di Napoleone, e si era alleato con l’Austria e l’Inghilterra.
Metternich, per ottenere l’appoggio di Murat, aveva firmato un trattato, nel
quale una clausola segreta prometteva al re di Napoli l’acquisto di un
territorio di 400.000 anime a spese dei possedimenti di Pio VII. Tale trattato
impegnava soltanto l’Austria, poiché non era stato sottoscritto dalle altre
potenze. La situazione pertanto era poco chiara. Fu risolta a proprio danno da
Murat, che diffidando dell’Austria, spezzò nel 1815 ogni legame con la
coalizione antinapoleonica, e con un esercito risalì la penisola dal regno di
Napoli con l’intento di raggiungere la valle padana. Da Rimini, il 30 marzo
1815, rivolse un proclama, in cui incitava a prendere le armi per preparare «una
rappresentanza veramente nazionale, una costituzione degna del secolo, [che]
guarentisca la libertà e la prosperità interna, tosto che il coraggio avrà
guarentita l’indipendenza ». Murat si proponeva di farsi re di un’Italia
unita e indipendente, promettendo costituzione e leggi liberali. L’appello non
fu accolto : dopo qualche successo sugli austriaci, battuti a Cesena,
Murat dovette ripiegare e a Tolentino, fra il 2 e il 3 maggio, fu sconfitto,
perdendo anche il regno di Napoli ove ritornavano i Borboni. Le Marche erano
restituite allo Stato Pontificio”.
Giacomo Leopardi, Agli Italiani in occasione della liberazione
del Piceno, free online
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