venerdì 28 settembre 2018

Il lutto non s’addice a Raboni

Un canzoniere erotico come un lamento funebre - come di prefica, un elogio lamentoso.
Continua implacable il lamento di Patrizia Valduga in morte dell’amato Raboni, quindici anni fa. Ma qui con una nota di ripensamento-risentimento. Delle occasioni perdute. Della frigidità colpevole – “E anche con lui era come masturbarmi,\ mai matura, scentrata e senza centro”. Un amore di “solitudini sorelle”.
Un risentimento che viene da lontano. La “Lezione di tenebre” che apre la raccolta, stillando nera malinconia, è opera del 2003, apposta col titolo “Manfredi” alle opera di Giovanni Manfredini, il pittore, che illustrava. Qualche venuzza era scoppiata anche in “Lezione d’amore”, 2004: “Che cosa può che un altro in me non possa”?
“Lezione di tenebra” è l’unica novità della raccolta – il Manfredi” del 2003 vi è rimpastato. Seguono I titolo già noti: “Cento quartine”, “Lezione d’amore”, ribattezzata “La tentazione”, “Erodiade”, “Fedra”. Repetita iuvant? Non al lettore.
Il saggio “Confessioni di una ladra di versi”, che chiude il libro, scritto per “La scatola a sorpresa. Studi e poesie per Mara Antonietta Grignani”, 2016, è un trattatello semiserio sul “parassitismo” – parola dal greco ‘presso’ e ‘cibo’, ‘colui che mangia alla tavola di qualcuno’”. Contro Victor Hugo, o in aggiunta, della poesia che è metà meditazione e metà ispirazione, il fuco sacro delle Pizie, “noi postfreudiani e postmatteblanchiani non crediamo più all’ispirazione; anzi crediamo che l’istanza della scrittura sia l’opposto di un ‘dono’: crediamo che abbia origine da una sottrazione, da una privazione, da una ferita”. La ferita famosa, dunque, ubiqua. Ma poi c’è anche la tradizione. E ci sono le ricorrenze, volontarie (imitazioni, citazioni) e involontarie. La prima è il “ladroneccio” di Daniello Bartoli, del “parassita imitatore”. O “endoparassita”, uno che “entra dentro il testo, lo modifica, lo scompiglia e – non di rado – gli fa anche del male”. Montale di Rebora, De Angelis di Raboni, etc.. Infine si arriva a Valduga: “Infine ci sono gli ectoparassiti, categoria a cui appartengo per inclinazione e destino”. Che beccano qua e là. In superficie, non entrando nel testo – costrutti, figure, parole. Il rampino di Valduga ha rubacchiato sopratutto “catene, croci et similia”, chiodi, spine, trappole. “Né si è lasciato sfuggire infanzie e infantilismi”. E “un senso di autoesclusione, se non di colpa”.
Appezzabile esame autoptico. Anche se il vocabolario, certo, è sempre quello. Di più, qui, come le grandi cortigiane di un tempo, “che hanno molto amato”, Valduga si mostra pronta per il cilicio – l’ultima parola del canzoniere erotico è D’Annunzio: manca l’“ohimé, la carne è triste”, ma tutto è pronto.
Con la cura sempre, o il dono, della rima, che dà scorrevolezza al verso, e un che di sorridente, tra l'ironia, o lo scherzo, e il mesto. Fa come dice Poe nei MarginaliaLa rima perfetta si ottiene solo combinando i due elementi, Uguaglianza e Imprevedibilità.  
Patrizia Valduga, Poesie erotiche, Einaudi, pp. 279 € 16

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