Dante – È il
prototipo dell’esiliato, e insieme di chi ha visto e vissuto solo nella sua
città, nella sua patria. È l’esiliato per eccellenza, per venti anni di fila
senza intermissione, la metà dei suoi anni attivi. Ed è il fiorentino per
eccellenza.
Gor’kij- Protetto di Lenin, Bucharin e Kamenev,
Stalin lo fece uccidere col veleno dal suo stesso amico Yagoda, capo della
Cekà. E insieme lo decretarono santo martire della rivoluzione.
Gor’kij a Capri, nel lungo esilio prima
della guerra, fu noto per essere ricco, elegante e burlone, ma era un duro:
voleva ed esaltava l’odio di classe, il lavoro forzato, la polizia segreta, le
doti di Stalin. Non abbastanza però. Anche se morì a un’età quasi giusta, di
sessantotto anni.
Yagoda verrà ucciso poco dopo, insieme con
Bukharin, Rykov e i medici del complotto trockista di destra. Già il figlio di
Gor’kij, Max, era morto della stessa “polmonite” che poi fulminerà il padre.
Genrikh Yagoda era anche l’amante della moglie di Max.
Innocenza
Usa – È
invenzione di Henry James? Un lampo malevolo sull’ortodossia jamesiana, di cui
sono eco molto #metoo e molta cronaca quotidiana, è anticipato da Harold Acton
nei racconti “Fin de race”, “Flora’s Lame Duck”, “Variations on the theme”,
della raccolta “The Soul’s Gymnasium and other stories” (“Fin de race” è
tradotto, nel volumetto con lo stesso titolo). Sulla “innocenza americana”, della
yankee giovane, di fronte alla
dissolutezza europea, uno dei temi di Henry James – di cui Mark Twain farà la
satira, nel libro di viaggi “Innocenti all’estero”, e anche Isak Dinesen in
qualche racconto. Un lampo che lo stesso scrittore anglofiorentino sintetizza
vigorosamente nel prologo: “Con tutto il dovuto rispetto e l’ammirazione che
Henry James si merita, è giunta l’ora di demolire la sua tesi forzata
sull’innocenza americana vittima della corruzione europea. Ho assistito a troppe
testimonianze in contrario, ingenui giovani italiani sedotti e abbandonati da
sgualdrinelle americane o irretiti con la promessa di un viaggetto
nell’Eldorado. Più di un sempliciotto
meridionale è abbagliato da quei rapidi coiti di simpatia seguiti da indifferenza
e oblio”.
Vernon
Lee – Una “bas-bleu”, una mezza calzetta
intellettuale per Harold Acton, nel prologo ai suoi racconti fiorentini, “Fin
de race” - nella comunità queer, come
usava dire prima degli Lgbt, non si era teneri. Ma Acton è equanime – lui si
definiva “un esteta”, alla Oscar Wilde: V.Lee aveva dei meriti (oltre ad aver
scritto racconti che si rileggono con più interesse?). Così ne scrive: “Le bas-blues letterarie” angofiorentine,
“Vernon Lee a Maiano e Janet Ross a Poggio Gherardo, possedevano un campo
d’interessi più ampio di quello che riscontriamo oggigiorno, oltre a una
conoscenza più profonda dell’Italia. Avevano trattato da pari a apri
J.A.Symonds e H.James” – “Vernon Lee” anche Mario Praz, che ne ha lasciato un
ritratto ammirato, di conoscenza del Settecento italiano se non di avvenenza.
Majakovskij
2 - Non
c’erano suicidi nei lager di Hitler,
i templi della disperazione, mentre i migliori si suicidavano nella rivoluzione,
specie nella rivoluzione russa. Contro il “futuro proibito”, dirà Jakobson, il
futuro che doveva resuscitare gli uomini del presente. “Sparano a me per
tutti,\ sgozzano me per tutti”, Majakovskij aveva divinato, “il tredicesimo
apostolo”. Sapendo di morire per non morire, lui che progettava “l’officina
delle risurrezioni umane”. Una religione rivoluzionaria che era il rifiuto
della morte e dell’inferno, della morte temporale e della morte eterna, anzi
dello stesso Giudizio Universale, sia esso a opera di Dio o di Stalin.
Attraverso la mobilitazione di tutta l’umanità per la causa comune.
Di Majakovskij Jakobson disse: “Una
generazione che ha dissipato i suoi poeti”. Voleva dire una rivoluzione?
L’entusiasta Vladimir è inciampato nella “merda pietrificata” del regime. E
Benjamin, perché no? Walter Benjamin, portato da una compagna a morte solitaria
alla frontiera spagnola, la sua meta agognata. Un filosofo che muore senza
neanche un biglietto d’addio, i filosofi scrivono tanto, e senza tracce in vena
della morfina che la compagna, Henny Gurland, asserì d’avergli visto iniettarsi.
Vittima, comunque la si giri, del patto Ribbentrop-Stalin.
Cosa resta? Che “la maggiore felicità
possibile va ripartita colla maggiore uguaglianza possibile, tale è il fine cui
deve tendere ogni legge umana”, Pietro Verri lo esigeva nel 1765. Mentre il
vecchio Baader sa che le dottrine puramente economiche non possono che condurre
al cannibalismo. Ma si muore pure di cultura. Il compagno Althusser, filosofo
severo, trovava che Stalin ha deviato dal marxismo per una “contaminazione del
movimento operaio col feticismo dell’uomo,” che è “alla base dell’ideologia
borghese”. Il maestro è severamente antiumano. In una storia di Buber questo è
il “progetto” del potere: “Abbassare i superbi e elevare gli umili, per
dominare sul mondo”.
Majakovskij,
di suo, andava di corsa. Di più nel miraggio della rivoluzione.
Maria Vergine - La Vergine è tornata di
moda nel Millennio. Non quella storica, dei Vangeli, ma la sua figura. Almeno
due romanzi in libreria Roselina Salemi scova su “Io Donna” con protagoniste
adolescenti madri vergini: “Madre Nostra”, aurore Stefano Paparozzi, e “I figli di Dio” di Glenn Cooper”. In
un’epoca di desessualizzazione, un risarcimento – una ricerca di?
Poeti
russi –
Muoiono giovani e non si sa perché. La poesia del futuro avrebbe fatto grande
la Russia, secondo Majakovskij. La poesia ancora non identifica la Russia, diceva,
non come l’icona, il balletto, ieri i romanzi, la musica oggi, ma presto sarà
cespite ricco di esportazione, la Quinta Internazionale. Se non che i poeti
russi muoiono giovani, nel primo Ottocento e nel primo Novecento, tendono a
morire a un’età che i calendari considerano giovane, e la Quinta Internazionale
resta incompiuta: Ryleev di trentun anni, giustiziato, Del’vig di trentadue,
Griboëdov di trentaquattro, Puškin di trentasette, Lermontov, che trovò il
tempo per valorose campagne nell’esercito, di appena ventisette, pure lui, per
mano del maggiore Martynov, in un duello provocato dagli ufficiali della
guarnigione di Piatygorsk per compiacere lo zar Nicola I, che quindi poté dire
la frase famosa: “A un cane morte da cane”. Nel Novecento Chlebnikov è morto di
trentasette anni, di vagabondaggio e miseria, Gumilëv di trentacinque, di
piombo rivoluzionario, Blok di quarantuno, di toska, la fatica di vivere, ubriachezza e amori infelici, Esenin e
Majakovskij, i due vitali-sti suicidi, di trenta e trentasette, Mandel’štam di
quarantasette, ai lavori forzati nel ghiaccio. Trentasette potrebbe ritenersi
l’età fatidica, segnata da Puškin e Majakovskij, dieci più dei poeti del
secondo Novecento. Altri sono impazziti o emigrati, morti civili, quasi tutti
infine suicidi. Se ne può fare una nuova ontologia, da
occidentali che infine rispondono per le rime agli slavofili del Filioque: perché la Russia uccide i
poeti? E perché li uccide giovani? Era il comunismo? Sì, ma prima?
Sotto il letterato Stalin, se non per sua
mano, i poeti che l’adoravano sono finiti male, Majakovskij, Gor’kij, Babel’,
si salvò chi resistette, Pasternak, Bulgakov, Šklovskij, Tynjanov.
Radclyff Hall – Poco intellettuale e molto
provinciale la dice Harold Acton, tra gli anglofiorentini. La ricchissima
ereditiera Marguerite Radclyff Hall, che tralasciava il nome di battesimo per
nascondere il sesso, “sfoggiava il suo femminismo in abiti maschili, ma non era
un’intellettuale, e Firenze fece poca presa sul suo provincialismo
parrocchiale”.
letterautore@anntiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento