venerdì 21 settembre 2018

Letture - 359

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Amore – “La più elitistica delle passioni” lo dice Brodskij (“Fuga da Bisanzio”, 102). Ma per un motivo: “Perché occupa più spazio nella mente che nel corpo”.

Antifemminismo – In letteratura  spesso, curiosamente, femminista. Opera di scrittori curiosi e  studiosi dell’animo e la condizione femminili, senza pregiudizio, costruendone di convincenti, e appassionanti: non solo Leopardi e Kierkegaard, o Pavese, ma anche Flaubert, e lo stesso Tolstòj, malgrado il lungo matrimonio e i tanti figli.  

Berlusconi – Quaranta e passa anni di Berlusconi in tv – il mobiliere Aiazzone – e venticinque in politica, e il correttore google non ha imparato a declinarlo: lo scrive Berlsuconi e non Berlusconi. 
Un premio Resistenza? Vuole impedire di scriverne?

Civiltà - “Le civiltà si muovono seguendo i meridiani, i nomadi seguendo le latitudini” – Iosif Brodskij, “Fuga da Bisanzio”.

Collezionista – È il Kaspar Utz del romanzo omonimo di Bruce Chatwin, il quale aveva fatto una modesta carriera da Sotheby’s prima di debuttare scrittore.
Harold Acton ne fa la rapida classificazione basandosi sulla sua esperienza di una vita a Firenze, col padre Arthur a Villa La Pietra, e su quella di grandi collezionisti, come i Sitwell, Osbert e suo padre George. Nel Prologo alla sua raccolta di racconti anglo fiorentini “Fin de race” così ne tratteggia la figura: “Allora”, fine Ottocento, primo Novecento, “Firenze pullulava di collezionisti stranieri che nella maggioranza, ossessionati dalla loro eterna caccia al tesoro, si disinteressavano della vita di tutti i giorni. Era quella una fame struggente del dipinto, della scultura o del cassone che aveva colpito o infiammato la loro fantasia”. Ce n’era che non avevano i mezzi, ma sacrificavano tutto: “Erano totalmente posseduti dagli oggetti che possedevano”.

Dialetto – Sostanzia la lingua. Nell’uso surrettizio che c’è, se ne può fare, parlando o scrivendo in lingua, in quello che Gian Luigi Beccaria dice “volgare illustre”. Lo dice a proposito di Pavese, “Il «volgare illustre» di Cesare Pavese”, che pur avendo fatto gli studi classi, quando arrivò a scrivere ebbe il bisogno di farsi un vocabolario, annotando parole e espressioni evidentemente a lui ignote o non familiari. “Il dialetto è nobilitato senza abbassare la lingua”, nota Beccaria di questo particolare uso: “Più che abbassamento della lingua al dialetto o innalzamento del dialetto alla lingua, si tratta di un’allusione al dialetto da parte della lingua”. Di un radicamento si potrebbe dire della lingua.

Discorso indiretto – La negazione dell’Autore. Nel mentre che si infila dappertutto. “J.S.Bach ebbe una grande fortuna”, I. Brodskij fa dire a Auden in conversazione (“Fuga daBisanzio”, 113): “Quando voleva lodare il Signore scriveva un corale o una cantata, rivolgendosi all’Onnipotente senza intermediari, a tu per tu. Oggi, se un poeta vuol fare la stessa cosa, deve ricorrere al discorso indiretto”. Rispettoso forse, corretto, come una dichiarazione preventiva di fallibilità da parte dell’Autore, ma quanto inutile. E faticoso.

Gioconda – “Opera pop, madre naturale di Chiara Ferragni”,Vittorio Sgarbi. Anche in questo Leonardo precursore? O è che il Louvre non ha nulla di meglio da vendere, di meglio di un Leonardo?

Moravia – Alla galleria fotografica in memoria di Inge Feltrinelli il”Corriere della sera” allinea queste didascalie: con la giornalista Camilla Cederna, con gli scrittori Amos Oz, Daniel Pennac , Jonathan Coe, con Giangiacomo e il figlio Carlo, con il premio Nobel Günther Grass, con lo scrittore romano Alberto Moravia.

Renoir – “Pletorico pittore” lo vuole Harold Acton, “esteta” e collezionista d’arte (nel racconto “Fin de race”), “di aragostacee bagnanti”.

Roma – È di Belli, Pascarella, Trilussa, Petrolini, Proietti, ma più e meglio – più “profonda”, varia, complessa, rimarchevole – di non romani: Gadda, Pasolini, Fellini, nonché degli scrittori immigrati con l’unità dopo Porta Pia: Chelli, Dossi, lo stesso D’Annunzio. Roma è dei non romani.

Sette – Enrico Malato introduce la sua riedizione critica della “Divina Commedia” per i settecento anni della morte di Dante nel 2012 con l’importanza per il poeta del numero sette, specie in questa ricorrenza, “non un centenario come gli altri”: “Sono 700 anni, cento volte sette, che per Dante è il numero sacro per eccellenza: 7 furono i giorni della creazione; 7 sono le virtù (4 cardinali + 3 teologali) cui corrisponde la loro negazione, nei 7 vizi capitali; settemplice, “costituito da sette elementi, è lo spirito di Dio;, da cui d erivano i 7 doni dello Spirito Santo, simbolicamente evocati nella processione mistica del paradiso terrestre, con i 7 cndelabri che lasciano altrettante scie luminose dietro di sé;  7, ancora, sono le cornici del purgatorio,  7 i cieli, 7 i sigilli dell’Apocalisse, 7 i sacramenti”. Sul 7 lo studioso vede imperniata l’intera struttura dell’opera. 
“A voler approfondire”, commenta Paolo Di Stefano presentando lo studio di Malato sul “Corriere della sera”, “le cifre del suo anno di morte, 1321, sommate, danno 7, e 21 è un suo multiplo. Ma almeno per il momento”, conclude, “va escluso che (Dante) l’abbia voluto”.
Sulla mania del 7 nella vita comune e nelle opere letterarie un repertorio lungo quattro pagine ha costruito Giuseppe Leuzzi nel romanzo “In virtù della follia”, 1992. Con l’ausilio di Elémire Zolla e altri studiosi.

Vedove – “In Russia il regime, negli anni Trenta e Quaranta sfornava vedove di scrittori con una tale efficienza che verso la metà dei Sessanta ce n’era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un sindacato” – I.Brodskij, “Fuga da Bisanzio”, 93.


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