giovedì 20 settembre 2018

Meno di uno

“Fuga da Bisanzio” è uno dei saggi - non il più cospicuo - di una serie intitolata in originale “Less than one”, meno di uno. Una sorta di selfie a largo spettro che il poeta russo, espulso in America, ha voluto scrivere per ricordare la sua città, Leningrado-Pietroburgo, “Peter”, i genitori, la Russia. Brodskij è stato uno degli emigrati più cospicui dell’Unione Sovietica, espulso appena trentaduenne, nel 1972, dopo vari confini in patria, a partire dal 1963, quando un giornale ne denunciò la poesia come “pornografica e anti-sovietica”, arrestato e quindi più volte confinato per “parassitismo sociale”, insignito del Nobel pochi anni dopo, nel 1987 – la raccolta è di un anno prima. Di una generazione in Russia, nelle città, che viveva, assicura, di libri. E di ubriachezza, il non detto dell’“era poderosa” o “paradiso in terra”, del Primo Stato Socialista nella Storia della Umanità, che il sociologo e narratore Viktor Zaslavsky documentava allora in contemporanea.
Operaio a 15 anni, apprendista fresatore, all’Arsenale, la grandissima fabbrica metallurgica di Leningrado-Pietroburgo. Poi all’obitorio dell’adiacente ospedale, per diventare medico. A 14 anni aveva superato gli esami per accedere a un’accademia per sommergibilisti, ma per via del “quinto paragrafo”, la nazionalità, ne fu escluso – la quota per gli ebrei essendo stata superata. Quella di essere ebreo è una condizione di cui Brodskij risente. La prima bugia che ricorda, a sette anni, è stata, nella scheda d’iscrizione a una biblioteca, l’aver detto alla bibliotecaria che non sapeva di che nazionalità fosse.
Un ragazzo avventuroso. Di buon umore malgrado tutto:  il carcere gli ha evitato la naja, si consola, il peggio del peggio. Anche se non è una soluzione: la condanna in prigione è “mancanza di spazio controbilanciata da eccesso di tempo”. Espulso senza preavviso nel 1972 a Vienna, prima ancora degli accordi di Kissinger a Mosca per un’emigrazione regolata, sopratutto si cura nelle 48 ore successive di cercare Auden, il suo poeta eletto, che sa villeggiare in un villaggio austriaco – ma quale? Finché lo trova. Poi un anno e mezzo a Roma, dice, ma non nei saggi non ce n’è traccia – sposa anche un’italiana, Maria Sozzani, che gli premuore nel 1990. Quindi in America, nel Michigan, professore in varie università.
Una guida nostalgica a “Peter”, il nomignolo in uso tra i residenti per l’allora Leningrado, di un figlio affettuoso, riconoscente. Eletta dai versi di Puškin e Mandel’stam. Poetica e romanzesca, malgrado Dostoevskij, “Memorie del sottosuolo”. Una formidabile nostalgia, in ogni saggio. Brodskij parla a lungo di Bisanzio e dell’Oriente, nel saggio del titolo, ma anche lì “Peter” riemerge diffusamente. Col ritratto celebrativo di Mandel’štam, “voce tanto più stonata quanto più è limpida”, fuori posto, controcorrente. Che il regime non saprà come combattere, salvo farlo sparire, dalle parti della Kamchatka. E poi di W. H. Auden, suo poeta di elezione, che per una serie di casi fortuiti lo accoglierà e ne patrocinerà i primi tempi dell’esilio – l’inglese dirà di avere adottato per entrare nel mondo di Auden, “per l’intelligenza di questo poeta”. Ma anche di Anna Achmàtova, di sbieco, e frontalmente di Nadežda Mandel’štam, la moglie fragile, combattiva, e poi, ottuagenaria, vincente.
Con molte pointes: Brodskij si compiace di scandalizzare il benpensante. Ma poi si spiega. Gli elegiaci, Properzio, Ovidio, contro Virgilio. Per invidia? Avevano anche argomenti – sapevano per esempio perché l “Eneide” non si poteva concludere. Ma dimenticavano che Virgilio era stato prima poeta di “Bucoliche “ e “Georgiche”. E ripetutamente “il delirio e l’orrore dell’Est”. L’ultimo saggio, “In una stanza e mezzo”, è un com’eravamo, nel ricordo dei genitori appena deceduti. Che non ha più il taglio informativo di quando fu scritto, trentatré anni fa. Ma lo stesso sorprendente. Nel quadro di una storia che si finge non avvenuta, una parentesi vuota. La vita tribale nell’appartamento condiviso, una stanza a famiglia, cucina, gabinetto, bagno in comune. Di vite alterate, deviate, dal regime. Di un padre, nel caso, che da ragazzo aveva studiato il altino, e di una madre che parlava il francese ma doveva nasconderlo.
Una nostalgia irrimediabile, pur negli agi e gli onori della nuova vita Americana. Molti gli attacchi al sovietismo, peri colpe inimmaginabili ma reali. La Russia si salva con la lingua: “La lingua russa e la sua letteratura, specialmente la sua poesia, sono le cose migliori che quel Paese possieda”. Non  nuovo, ma impegnativo.
Il totalitarismo rende autocoscienti, acuisce l’autocontrollo. “Nel paese in cui ho trascorso trentadue anni l’adulterio e l’andare al cinema sono le uniche forme di libera iniziativa. Più l’Arte”. Ma di fatto, non solo nel totalitarismo, “uno è forse meno di «uno»”. Non per fare dispetto a Grilo, ma alla letteratura, alla storia, dell’Io, magmatico e inconclusivo, benché perfettibile.

Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, pp. 243 € 12

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