Per decenni, dal 1945 fino al
1990, Berlino ha avuto nella pancia 150 chilometri di dossier politici. Trenta milioni di
fascicoli, uno per ogni tedesco, dell’Est e dell’Ovest, tolte le casalinghe e i
bambini, ognuno spiava chi lo stava spiando, la moglie il marito, e viceversa,
il padre i figli, e viceversa, mezzo centimetro in media per uno, pressati, di
taglio, da Milano portavano a Genova, o a Torino. Falanga dice 111 chilometri,
e sarà così, a una revisione della chilometrica documentazione – i fascicoli
erano compressi, la Stasi era all’avanguardia delle tecniche spionistiche:
Falanga conta 39 milioni di schede, un milione e mezzo di fotografie e
diapositive, 2.734 film e video, 31.300 cassette audio, e 7.832 archivi dell’era
in formatica, dischetti, nastri, cd.
È
la Stasi il ministero in questione, il ministero della Sicurezza dello Stato, la
polizia politica della Germania Democratica, o comunista. A Berlino Est. Modellata
sulla Cekà, la madre delle polizie politiche sovietiche, il cui modello i
tedeschi della Stasi si vantavano di avere perfezionati fino a dopo la caduta
del Muro.
Falanga
sa tutto e riferisce con teutonica precisione perché ci lavora, lavora al Museo
della Stasi: la Stasi si ricorda con un museo, benché confinato in un ex penitenziario, a
Hohenschonhausenun po’ come Auschwitz, a futura memoria, da “Auschwitz delle coscienze”.
E per l’applicazione poliziesca e, di più, peggio, per la corruzione morale. L’imperativo
categorico kantiano, o fondamento della morale, riducendo a denunciare,
denunciare, e denunciarsi. Garanti della rivoluzione, e del potere proletario,
non per altro. Senza cinismo, i tedeschi, si sa, non sono cinici, il dovere
anzitutto.
Spiavano i contestatori, e le
contestatrici. E i familiari. Oltre ai soliti vicini di casa, portieri,
invidiosi, eccetera. C’era anche una scuola
di “decomposizione delle anime”, spiega Falanga: una Scuola Superiore di
Diritto dove si insegnava ai quadri che ambivano alal dirigenza le tecniche di “psicologia
operativa”.
Fecero colpi da leggenda. Il culmine
fu l’aggancio di Gunter GuillauTutti spie me, il segretario di Willy Brandt, del quale
fecero affiorare il tradimento quando vollero sbarazzarsi di Brandt. Ma usavano
la tortura, e le esecuzioni, più o meno giudiziarie. Riesumarono anche la ghigliottina,
che piaceva a Hitler: ne furono ultime vittime, il 23 novembre 1955, i
protagonisti di un caso famoso, la segretaria di Grotewohl, capo del governo comunista,
Elli Baczatis, e il giornalista suo compagno Karl Laurenz. Si fecero
esecuzioni, più o meno sommarie, fino a giugno 1981 – l’ultima vittima, un
ufficiale Stasi, fu ucciso nel carcere di Lipsia con un colpo alla testa.
C’erano precedenti, di
tradimenti. La Stasi non era infiltrabile, ma non defezionabile. Il caso più
clamoroso fu nel 1979, quando defezionò un colonnello, Werner Stiller, con i
microfilm di 20 mila documenti, e soprattutto una lista di informatori attivi
in Germania Ovest e Austria: professori, fisici, ingegneri, informatici,
esperti nucleari. Il suo capo più celebre e inafferrabile, Markus Wolf, “settanta
identità”, fu fotografato con la seconda moglie a Stoccolma – e fece un
successo per “Der Spiegel”, che ne poté raccontare la storia.
Il terrorismo, palestinese,
sudamericano, Raf, Br, fu monitorato in dettaglio. Ma solo per prevenire
contagi, la Stasi non si sporcava con soggetti incontrollabili. Eccetto che
nell’attentato a Giovanni Paolo II. Per il quale fornì al Kgb sovietico, che
voleva assolutamente l’eliminazione del papa polacco, la messe di informazioni
che riceveva dal Vaticano. Avevano più di una spia in Vaticano, e fornirono per
anni al mondo sovietico informazioni di prima mano.
Tutti spie nel sovietismo. Per nulla, le spie non cambiano la storia.
Nemmeno nella forma tedesco-orientale, pervasiva, onnipresente, alla Grande Fratello
orwelliano. La paranoia del titolo il titolo giusto.
Gianluca Falanga, Il ministero della paranoia, Carocci,
pp.319 € 22
Nessun commento:
Posta un commento