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lunedì 29 ottobre 2018

Fratello Hitler, di Wagner – la barbarie è culturale


Il fondamento del nazismo è culturale. Il saggio che il germanista ceco naturalizzato americano, studioso di Goethe, Wagner, Thomas Mann, ha conferito al convegno dell’Istituto Italiano di Studi Germanici su “Wagner in Italia 1914-1945” è un convincente tracciamento della politicizzazione del giovane Hilter attraverso l’ascolto di Wagner, in un’aura estestizzante. A partire dal “Rienzi”.
Il saggio è un rifacimento di un precedente lavoro, 2009, “Wagnerian self-fashioning: the case of Adolf Hitler”. Vaget si colloca nella revisione in corso sulle origini e la natura del nazismo. Con cautela: la “scoperta” che Hitler non era antisemita prima del 1919 temperando col fatto che, negli anni di Vienna, 1908-1913, può avere assimilato l’antisemitismo ordinario nella capitale imperiale,  anche per impulso del suo popolarissimo sindaco, Karl Kueger, antisemita prima che ogni altra cosa, in carica dal 1897 al 1910. Un assorbimento tanto più ovvio in quanto Hitler fu autodidatta, lettore vorace e confuso, di arte e storia, le sue passioni – il “dilettante” di Stendhal, curioso e indifeso. Ma fa di questo humus culturale la radice e insieme il concime del nazismo, più dell’economia, la fame, l’umiliazione, in guerra e dopo. Nel segno di Wagner. 
Rienzi
Non fu Cesare né Masaniello, fu Cola di Rienzi, il tribuno populista romano, che ispirò Mussolini e Hitler. Per loro espliciti riferimenti. Di Mussolini al romanzo del popolarissimo Bulwer-Lytton (“era una notte buia e tempestosa” è suo ©). Di Hitler per l’opera che Wagner ne ricavò, da lui ascoltata quindicenne, la seconda volta che andava a teatro, che gli lasciò impressione durevole e decisiva. Nel 1939, ospite come sempre d’onore della famiglia Wagner a Bayreuth, dirà: “Tutto cominciò in quel momento”, all’ascolto del “Rienzi”.
Hitler, prima che al titolo di Führer aveva pensato a quello di Tribuno, e del “Rienzi” volle l’ouverture diffusa in apertura ai suoi comizi. Prima di Wagner Hitler non aveva idee, non ne manifestava. Dopo sì, dopo il “Rienzi”. Il personaggio e la musica avendo innescato il meccanismo del self-fashioning. Il meccanismo mentale, così definito dallo storico della cultura Greenspan nel 1980 (“Renaissance Self-Fashioning. From More to Shakespeare”) per cui si diventa quello che si immagina o si vorrebbe essere. È l’estetismo che solo può portare a estremi illimitati, spiega Vaget in apertura: “Nella mappa dell’estetismo non c’è un Rubicone morale”.
Con l’estetismo e con Wagner, in quella che viene chiamata la “svolta estetica” degli studi sull’hitlerismo, Vaget entra nel vuoto che si apre, dopo il rifiuto dei fattori “strutturali” (ex strutturali), in questi stessi studi. Di cui dà conto in sintesi col parere dell’ultimo biografo del Führer, Peter Longerich: “Oggi, contrariamente a quanto i più credono, il nazionalsocialismo non è per nulla un capitolo chiuso; non ci sono ancora interpretazioni definitive”. Della radice del male. Vaget propone la radice estetica: il sogno dell’arte, come quello che è disgiunto da ogni considerazione di morale. Un invaghimento, un invasamento. Sulla traccia aperta nel 2003 da Frederic Spott, “Hitler and the power of Aestetics”. Mentre è noto, dalle memorie di Speer e altri, il fascino che su Hitler esercitava l’architettura, quella militare, delle fortezze e i castelli, e qualla urbana, di rimodellamento delle città. Con Spott, e con Thomas Mann, con la sua prima intuizione di Hitler, il suo “fratello Hitler”, provando a spostare le origini del nazismo nella cultura. Non nell’economia, né nella politica, o in un’ideologia precisa, ma su un sostrato culturale. Quale emerge consistente dalle lettere, i discorsi, le abitudini e attitudini. Di una cultura “wagneriana”. Del Wagner pangermanista, illimitato.
È su Wagner che Hitler, un giovane come tanti altri, non particolarmente brillante ma nemmeno facinoroso, ha costruito il suo modello di vita. Per il meccanismo dell’automodellazione – self-fashioning. Del Wagner che, dopo il “Rienzi”, assorbì a Vienna, nei cinque anni che vi risiedette, a partire dal 1908. “Un Wagner molto diverso da quello degli amanti dell’opera a Parigi o a Londra”: tradizionalista, nazionalista, razzista. Cinque anni nei quali Wagner fu programmato ben 426 volte nella capitale austro-ungarica. Sede della prima importante Società wagneriana, il Wiener Akademischer Wagner-Verein, creato nel 1872 con lo scopo sociale di “liberare l’arte tedesca dall’adulterazione e la giudeizzazione”. Iperwagneriano era il genero del compositore, Houston Stewart Chamberain, lo scrittore antisemita, che visse a Vienna vent’anni, 1889-1908, molto in vista,  molto presente con discorsi e scritti. Nacque a Vienna il mito e il rito di Bayreuth.
Non c’è modo di misurare l’estetismo di Hitler, come di chiunque altro. Ma Vaget può ricordare che non ebbe altra vita. Dipingeva. Prese lezioni di dizione. E di recitazione. Viveva in un mondo wagneriano. L’ambasciatore francese François-Poncet, che fu a Berlino dal 1931 al 1938, lo ricorda immerso nel suo Wagner, al punto da credersi Lohengrin, Siegfried, Walther e Parsifal. Un “dilettante” e un “dandy – anche questo in linea con l’esperienza viennese, del gruppo letterario di quegli anni conosciuto come Jung Wien, Vienna giovane.
Gli eredi Wagner furono ferventi hitleriani, dopo una prima esitazione – dopo la guerra finanziavano Ludendorff. Già dal 1923 lo sostengono entusiasti, con lettere e finanziamenti. L’assunzione del patrocinio fu resa pubblica con due lettere di Chamberlain e una di Winifred Wagner, la moglie di Siegfried. Chamberlain lo nomina prima “Siegfried” poi “Parsifal” – nuovo re e leader della comunità del Graal. E gli prescrive l’antisemitismo – di cui Hitler subito dopo, in carcere per il fallito putsch, terrà ampio conto nella redazione del “Mein Kampf”. Winifred sarà invitata alla rifondazione del partito Nazista, finite la carcerazione di Hitler, il 25 febbraio 1925. Bayreuth sarà sempre patrocinata da Hitler.
“Nel suo Kulturrede del 1934”, ricorda Vaget, l’allocuzione culturale, “parlando dei grandi artisti come precursori del futuro, Hiter definisce i geni come incarnazioni dei più elevati valori del Volk e il suo proprio ruolo come quello di un educatore della nazione, che insegna ai Volksgenossen la riverenza a ogni manifestazione del genio. La nozione teologica di «incarnazione» porta pienamente alla luce il carattere del culto di Hitler per Wagner” che era stato “un potente corrente sotterranea  del culto”. Da qui anche il genocidio: “È perciò dall’intersezione fra le convinzioni estetiche e quelle razziali che emerge nella mente di Hitler la giustificazione per l’estrema barbarie del genocidio”. Che lo porterà a un doppio fallimento: “Il suo donchisciottesco sforzo di rifare la Germania a immagine della mitologia wagneriana era palesemente anacronistico, e condannato dall’inizio. Hitler ebbe poco sostegno su questo nei ranghi del Partito e di conseguenza non quella risonanza popolare che all’evidenza si attendeva”.
Già Thomas Mann era arrivato a questa conclusione. È la traccia del voluminoso “Doctor Faustus” già nel 1945, ”la malinconica meditazione sulla concatenazione della musica tedesca con la storia tedesca”, e “l’amara realtà che nel mondo moderno ha avuto il legame tra estetismo e inumanità”. Un romanzo che “ci impone di considerare la prova profondamente disturbante della prossimità tra estetismo e barbarie, e di ponderare”, con le parole di Thomas Mann, “«ognuno nel proprio intimo» i modi come «l’estetismo prepara la strada alla barbarie»”.   
 Hans Rudolf Vaget, Come Hitler divenne “Hitler”, Istituto Italiano di Studi Germanici

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