Si applica alla Via della Seta, il progetto euroasiatico lanciato dal presidente a vita cinese Xi, la qualifica di “trattati ineguali”, che nella storia diplomatica sono quelli imposti alla Cina dalle potenze coloniali, Gran Bretagna in testa, ma anche l’Italia nel suo piccolo, nel secondo Ottocento, primo Novecento. Ma anche, si potrebbe in chiave leninista, la Cina è pur sempre un Paese comunista, dire la Via della Seta un caso esemplare di imperialismo: un surplus di capitali che cerca impiego.
La Malesia ha cancellato contratti per 20 miliardi di dollari,
già firmati con la Cina, per grandi infrastrutture. L’India ha varato un piano
di investimenti in Africa contro l’iniziativa cinese, che sente come un
accerchiamento - l’Oceano Indiano è stato a lungo una sorta di mare interno col
continente africano, con la East Africa: un piano da 50 miliardi di dollari, di
cui 40 sarebbero già stati spesi, contro i 100 cinesi, cui se ne aggiungeranno
altri 60.
La contestazione è soprattutto forte nella stessa Cina. Tiene il
posto dela contesa politica, che il regime non ammette. Non potendosi contestare
il progetto di Xi, si è creato un “caso Hu”, del professor Hu Angang, direttore
di un Istituto di studi sulla Cina contemporanea, che ad agosto ha pubblicato
una serie di indici da cui risulta che la Cina ha superato per molti aspetti gli
Stati Uniti. Hu è accusato di “arroganza” e di “provocazione”, tale da attirare
“la calamità sul popolo”. Ufficialmente la Cina si vuole in navigazione sott’acqua.
La critica in realtà mirerebbe al presidente Xi Jinping. A opera
di un gruppo della vecchi guardia comunista, i predecessori di Xi: Jiang Zemin,
Hu Jintao e Zhu Rongji. Ma la valutazione è sempre giapponese, della Nikkei.
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