Poi vengono Rilke, “il future
entra in noi”. Lo specchio, ma che sia taoista, “lo sguardo ritornato”. Per concludere,
sempre all’inizio: “L’autobiografia come genere letterario del resto non mi
interessa. La vita e la letteratura stanno su piani diversi: la vita si può
solo vivere”. Detto dall’autore di “Autobiografie altrui”, un selfie critico a frammentazione di specchi.
Non sempre gli scrittori sono
maestri. Di vita o di saggezza. Ma Tabucchi resta narratore, uno dei più creative
del Novecento. E anche questo tema ingrate riesce in qualche modo a raccontare.
Poi riracconta le sue opere.
“Dietro l’arazzo” viene da “Il
gioco del rovescio”, i racconti del 1981. Che Tabucchi condensa così: “Un atto
di coraggio e un atto di dimissioni”, a nemmeno quarant’anni, l’autore più apprezzato, “o già, comunque, di ‘ammissione’. L’atto di coraggio consisteva nel
dire: guardate, ora mi insinuo dietro il tappeto. E poi l’ammissione: sapete,
ci ho provato, ma in realtà meglio leggere la figura che si vede di fronte.
Tanto il rovescio non si capisce”. Cose così.
Si sarebbe voluto di meglio,
di meglio che una superba ipocrisia, ma bisogna contentarsi. Sul “gioco del
rovescio” un’autocritica Tabucchi la accenna anche. A proposito del sospetto,
che lo insidia: “La mia posizione rispetto
anche alla situazione politica, di cui ogni tanto mi occupo, forse infastidisce
molti perché è guidata dal sospetto. Dal sospetto di voler guardare il rovescio
delle cose”.
È una conversazione degli ultimi
mesi del 2004, proposta dieci anni dopo. Con Luca Cherici, conterraneo e
ammiratore di Tabucchi, medico, sembra di capire, di professione. Ma è di fatto
un’autointervista: il testo è riscritto da Tabucchi, da quello che si vede nei facsimili della trascrizione qui
allegati. L’intervista è arricchita da un ricordo personale di Paolo Di Paolo.
Antonio Tabucchi, Dietro l’arazzo, Giulio Perrone, pp.
77, ill., € 10
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